Il salario minimo non è l soluzione al problema della perdita di potere d’acquisto della retribuzioni italiane o a quello del lavoro povero. I sindacati lo ripetono da tempo. E lo sottoscrive anche l’Istat. Il salario minimo, spiega la direttrice centrale Istat per le statistiche sociali e il welfare, Cristina Freguja, in audizione presso la commissione Lavoro della Camera, “da solo non può risolvere i problemi dei lavoratori vulnerabili, che sono tali perché lavorano poco, a intermittenza”. Il lavoro povero, dunque, è innanzitutto lavoro precario. Ma non solo. Freguja evidenzia che il numero di lavoratori a tempo determinato “è raddoppiato dai primi anni '90, frutto anche dei cambiamenti della società, ma nel 50% dei casi circa si tratta di contratti della durata di meno di sei mesi”. Non solo. Quasi il 19% dei lavoratori dipendenti è part-time; un part time che, nel 60% dei casi, non è volontario. Si tratta dunque di persone che vorrebbero lavorare di più.
Sul fronte della formazione la direttrice Istat, spiega che “tra i 30 e i 34 anni i giovani laureati non raggiungono il 28% contro il 41% della media europea”. Anche questo si traduce “in una produttività più bassa delle imprese, perché manca una massa critica di imprenditori con un bagaglio culturale importante e una capacità di lavorare nel mondo della digitalizzazione, guardando anche all'esterno dei nostri confini nazionali”. La questione salariale, dunque, non sarà risolta con qualche nuova norma ma richiede soluzioni molto più articolate e strutturali. “L'investimento nel capitale umano - sottolinea Freguja - è una delle cose più importanti per il nostro Paese”.
Tra l’altro, investire nel capitale umano significa investire nello sviluppo. E lo sviluppo, in ITalia, è bloccato da decenni. La mancata crescita del nostro Pil è andata di pari passo alla mancata crescita degli stipendi. Rispetto a vent’anni fa, la retribuzione media in Italia è cresciuta dello 0,5%, contro il 20,1% in Germania e il 23,9 in Francia. Anche in Spagna gli stipendi sono cresciuti di poco, dello 0,7%, e il livello medio è più basso di quello italiano.
Anche sul fronte della produttività siamo rimasti troppo indietro: nel 2020 ogni ora lavorata ha prodotto in Italia circa 55 dollari di Pil, contro i 67 della Germania, i 68 della Francia e i 73 degli Stati Uniti.
Il risultato di questo declino è che, a parità di potere d’acquisto, un lavoratore italiano guadagna in media 15 mila euro in meno all’anno di un lavoratore tedesco, quasi 10 mila in meno di uno francese e quasi la metà di uno americano.
La questione, dunque, va affrontata con interventi profondi e investimenti. Ed è quanto mai urgente, dopo due anni di pandemia e uno di inflazione record. L’anno scorso, infatti, il divario tra la dinamica dei prezzi - misurata dall'indice dei prezzi al consumo - e quella delle retribuzioni contrattuali è salito a 7,6 punti percentuali in Italia, raggiungendo il valore più elevato dal 2001, primo anno di diffusione dell'indicatore dei prezzi armonizzato a livello europeo (in passato il valore massimo era stato raggiunto nel 2012 ed era pari a 1,8 punti percentuali).
Ilaria Storti