Parte oggi l’Europeo di calcio che il Covid19 ha fatto slittare di un anno. Un segnale di ripresa per lo sport più popolare e per l’esercito di appassionati che, riaffacciandosi almeno in parte agli stadi, potranno davvero intravedere la fine del tunnel della pandemia. L’edizione numero 16 del torneo continentale vedrà 24 nazionali in campo, inizialmente divise in sei giorni da quattro, che si sfideranno con progressive eliminazioni fino alla finale fissata a Londra, allo stadio di Wembley, l’11 luglio. Un mese esatto di sfide da consumare attraverso uno schema consolidato: passaggio agli ottavi di finale per le prime due di ogni girone più le quattro migliori terze, stabilite in base a punti e differenza reti, e via andare.
Si gioca in undici città – Amsterdam, Baku, Bucarest, Budapest, Copenaghen, Glasgow, Londra, Monaco di Baviera, Roma, San Pietroburgo e Siviglia – con una formula itinerante che solleva più di un dubbio, considerato che il Coronavirus resta sempre in agguato. È la prima volta che gli Europei non si disputano in un unico paese: la decisione dell’insolito format è stata presa dall’Uefa nel 2014, ben prima che il Covid19 devastasse le nostre vite, per celebrare i sessant’anni, ora diventati sessantuno, dalla prima edizione. Alcuni incontri si svolgeranno inevitabilmente in contesti quanto meno strani: l’Italia ad esempio giocherà tutte le partite del suo girone a Roma (compresa quella di stasera contro la Turchia), mentre le altre due nostre rivali, Galles e Svizzera, giocheranno a Baku, in Azerbaijan, appena 4500 chilometri fuori del Raccordo anulare. Tornerà l’effetto-tifo, e quindi i cori, gli sventolii di bandiere e ovviamente anche gli insulti ad arbitri e avversari: primo segnale concreto, per quanto poco elegante, del sognato, progressivo ritorno alla normalità. Gli stadi saranno accessibili al 25 per cento della loro capienza, per rispettare il distanziamento anti-Covid19. Oggi all’Olimpico, Italia-Turchia avrà una cornice di 15 mila spettatori sui quasi 73 mila possibili. Farà eccezione la Puskas Arena, lo stadio di Budapest, che riempirà tutti i suoi 67.215 posti: per Orban, che pure non sembra averla gestita benissimo, la pandemia non è evidentemente un problema.
Lo è diventata subito, invece, per qualche nazionale, anche di rango. Già diversi i casi di positività al Covid19 registrati prima ancora dell’inizio del torneo, i più clamorosi quelli che hanno riguardato lo spagnolo Busquets (Barcellona) e lo svedese Kulusevski (Juventus). Le regole prevedono che i giocatori risultati positivi vadano in isolamento e che tutti gli altri componenti dello staff vengano sottoposti a tamponi quotidiani. Il regolamento stabilisce che per disputare le partite previste dal calendario ogni nazionale dovrà avere a disposizione almeno 13 giocatori. Diversamente il match sarà spostato nei due giorni successivi, magari in una città diversa. Qualora anche questo fosse impossibile, la nazionale rischia la sconfitta a tavolino. Insomma, Covid19 o no, the show must go on.
Nella speranza che tutto vada bene sotto il profilo sanitario (anche per gli spettatori, che in molti stadi dovranno certificare di essersi sottoposti alle vaccinazioni), proviamo a immaginare che Europeo sarà sotto il profilo sportivo. La squadra da battere è la Francia, che ha vinto l’ultimo Mondiale e che nell’Europeo del 2016 ha perso a sorpresa la finale con il Portogallo. L’organico a disposizione del ct Deschamps è impressionante, se si pensa che dalla lista dei 26 (tanti i giocatori per ogni equipe, con la possibilità di effettuare cinque cambi a partita) sono rimasti fuori giocatori come Theo Hernandez, Lacazette, Veretout, Martial, Dembelé, Mendy. Ma occhio ancora ai campioni uscenti del Portogallo, agli straordinari talenti dell’Inghilterra (sulla carta mai così brillanti), alla Spagna, al Belgio, all’Olanda, alla Germania che ha appena vinto gli Europei under 21. Quanto ai singoli protagonisti, al di là degli assi annunciati, da Mbappé a Kane, da Lukaku a Cristiano Ronaldo, proviamo a segnalare a chi da stasera si accomoderà sul divano a godersi un po’ di calcio i magnifici sette forse meno noti: Isak (Svdezia), Moder (Polonia), Bozenik (Slovacchia), Maalen (Olanda), Kalajdzic (Austria), Ivanusec (Croazia) e Hlozek (Repubblica Ceca). Cinque su sette sono attaccanti che farebbero la gioia di chissà quanti club di rango: Isak, svedese di pelle nera quest’anno alla Real Sociedad, piace al Barcellona e potrebbe tornare al Borussia Dortmund, a raccogliere l’eredità del fenomeno norvegese Haaland, a un passo dal Chelsea.
E l’Italia? La nostra nazionale ha saltato gli ultimi Mondiali e gioca il primo grande torneo dopo cinque malinconiche estati senza impegni: l’ultima partita in un torneo internazionale risale al 2 luglio 2016, sconfitta ai rigori contro la Germania, nei quarti dell’Europeo disputato in Francia. È un’Italia giovane e senza fenomeni conclamati: non c’è un numero 10 alla Baggio o alla Totti, manca una punta di sicuro livello mondiale, l’ultimo erede della nostra dinastia di straordinari difensori (Chiellini) è parecchio avanti con gli anni. In panchina però c’è un ct, Roberto Mancini, sin qui capace di andare oltre qualsiasi pronostico e di rifondare una squadra spenta e senza prospettive. La vera star è lui, molto più di Donnarumma, Barella o Verratti. Negli ultimi tre anni la sua Italia ha infilato 23 vittorie, 7 pareggi e 2 sconfitte in 32 partite, con 79 gol segnati e 14 subiti. Battendo nettamente la Repubblica Ceca nell’ultima amichevole prima degli Europei, la settimana scorsa, ha colto l’ottavo successo consecutivo, senza subire gol: non era mai successo nella storia degli azzurri.
Questi risultati rischiano peraltro di creare aspettative eccessive, come è facile cogliere nell’enfasi mediatica che, ai nostri lidi, ha accompagnato l’avvicinamento al torneo. Non dovremmo avere grandi problemi a superare il girone che ci propone avversari non irresistibili ma da rispettare (Turchia e Svizzera molto più del Galles), ma dagli ottavi in poi sarà un terno al lotto. Sulla carta la squadra di Mancini, per quanto in grado di esprimere un bel calcio, sembra ancora giovane e inesperta, rispetto ad altre nazionali. Molto dipenderà dalla chimica che a volte il gruppo azzurro riesce a costruire, specie quando non parte favorito: emblematica resta ancora l’impresa dell’Italia di Lippi ai Mondiali tedeschi del 2006, l’ultimo grande trionfo del calcio italiano.
Sullo svolgimento dell’Europeo al via oggi peserà più del solito la condizione fisica degli atleti. I nostri calciatori vengono comunque da undici mesi di pallone, giocati quasi senza soluzione di continuità: al pari di altri, è vero (gli inglesi su tutti), ma le tensioni della serie A, non certo il torneo più spettacolare ma forse il più difficile d’Europa, possono lasciare scorie particolarmente fastidiose. Del resto nel 2020 devastato dal Covid19 campionato e coppe per le nostre squadre sono ripartiti a inizio giugno, dopo il blocco totale per la pandemia, e si sono conclusi solo ad agosto inoltrato: il 21 l’Inter era ancora in campo a Colonia, in Germania, a contendere l’Europa League al Siviglia, che ha poi prevalso. E il 19 settembre, nemmeno un mese dopo, la giostra del campionato si è rimessa in moto, per fermarsi solo il 23 maggio, poco più di due settimane fa, proprio con il successo dei nerazzurri. Vero che i calciatori restano dei privilegiati, che sono strapagati e che il loro mestiere è basato su un gioco. Ma non per questo non hanno diritto a sentirsi stanchi.
Stefano Petrucci