Giovedì 25 aprile 2024, ore 19:12

Economia

Con la pandemia aumentano paure e insoddisfazioni dei lavoratori

La pandemia ha cambiato il mercato del lavoro e acuito stress e paure dei lavoratori. Ma gli italiani non cercano un nuovo paradigma, quanto piuttosto maggiori certezze, stabilità, diritti. Secondo l’ultimo rapporto Censis sul tema, 1 lavoratore su 3 ha ansia nel pensare al ritorno alla normalità e quasi 7 italiani su 10, pensando al proprio lavoro, si sentono meno sicuri e meno tutelati rispetto a due anni fa. La paura verso il futuro convive con “una latente, sommersa, ma intensa insoddisfazione verso il proprio lavoro”. Ciò fa sì che la maggioranza dei lavoratori, pur insoddisfatta del proprio lavoro, non lo lasci. Il 56,2% degli occupati dichiara di tenersi il lavoro attuale perché convinto che non ne troverebbe uno migliore. Il pragmatismo rassegnato è più condiviso da lavoratori adulti (62,2%), esecutivi (63,3%) e donne (58,4%).
In sostanza, la maggioranza degli italiani è insoddisfatta del lavoro, ma non prova a cambiare “perché trovarne uno migliore è difficile”. Del resto, l’82,3% degli occupati, con valori che restano uguali o superiori all’80% per le varie tipologie di lavoratori, ritiene di meritare di più nel proprio lavoro. Tra i fattori determinanti di questa insoddisfazione diffusa ci sono certamente le retribuzioni, che in Italia sono troppe basse, a seguito di un lungo periodo “di svalorizzazione del lavoro”. Le retribuzioni medie lorde annue in Italia registrano un meno 3,6% reale in vent’anni, contro il più 17,9% reale in Germania e il più 17,5% reale in Francia. Non sorprende che per il 58,1% dei lavoratori la retribuzione non sia adeguata al lavoro che svolge. Una insoddisfazione retributiva trasversale alle tipologie di lavoratori. Alla ragione economica, evidenzia il Censis, se ne aggiungono altre di primaria importanza. Infatti, nelle aziende medio-grandi e nei grandi bacini di occupazione del pubblico, “esiste una dimensione psicologica di silenziosa estraneità dal lavoro, legata alle mancate gratificazioni e al fatto che non ci si riconosce nel lavoro come attività sociale che trasmette alla persona identità, senso di sé e del proprio ruolo sociale”.
Le persone non scappano dalle aziende, “ma ci sopravvivono come fosse una necessità ineludibile, di cui minimizzare senso e impatto sulla propria vita”. Nei prossimi anni questo mood psicologico, secondo l’indagine, “potrebbe accentuarsi, poiché emergerà una potente voglia di vivere che presumibilmente andrà a cercare l’auto-valorizzazione soggettiva fuori e oltre il lavoro e le aziende”. Per la aziende diventa quindi fondamentale promuovere engagement, “ovvero portare le persone a quell’investimento soggettivo che fa tirare fuori il meglio di sé, e che può nascere solo se nel lavoro e nelle aziende le persone trovano le buone risposte alle proprie ambizioni e alla voglia di riconoscimento e realizzazione personale”. In altre parole, il welfare aziendale assume un ruolo ancora più decisivo. Un welfare che, secondo il Censis, deve essere sempre più su misura del singolo.
In sostanza, il buon welfare aziendale non è solo quello che consente di scegliere tra tante cose, “ma anche quello che aiuta a scegliere le cose che rispondono all’unicità di problemi ed esigenze del singolo lavoratore”. L’obiettivo deve dunque essere: supportare fiscalmente il reddito del lavoratore con benefici anche per i conti aziendali; garantire l’accesso sia ad una molteplicità di flexible benefit che integrano il reddito sia ad essenziali tutele e servizi di welfare; riconoscere la soggettività del lavoratore, aiutandolo nel costruirsi soluzioni personalizzate per rispondere alle sue problematiche.
Solo così, il welfare aziendale darà ai lavoratori la percezione netta della presenza prossima della comunità aziendale.
Ilaria Storti

( 10 marzo 2022 )

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