Francesco Scarabicchi, venuto a mancare la settimana scorsa, è stato il poeta della rastremazione, dell’essenzialità, del verso asciugato nel calco della parola. La sua è una liricità attorcigliata intorno alla perdita, alla finitudine, all’orfanità. L’evento basilare della sua vita è stata la morte del padre quando aveva appena dieci anni. Il significato della poesia fissa il noumeno, il tempo dell’adesso e del mai più. Francesco Scarabicchi nacque dal magistero di Franco Scataglini e dal concetto di “residenza” assorbito insieme ai sodali Massimo Raffaeli e Gianni D’Elia: che senso ha vivere qui e non altrove, in un luogo alienato come tutti gli altri? Einaudi, nel 2017, ha ripubblicato Il prato bianco, raccolta che era già uscita presso il piccolo editore L’Obliquo nel 1987. “Porto in salvo dal freddo le parole, / curo l’ombra dell’erba, la coltivo / alla luce notturna delle aiuole, / custodisco la casa dove vivo, / dico piano il tuo nome, lo conservo / per l’inverno che viene, come un lume”. La dichiarazione di poetica dell’autore nativo di Ancona si lega allo struggente ricordo, ad un filo sospeso con il passato ritagliato in fotogrammi che si aprono ad un biografismo non autoreferenziale, di luoghi domestici e intimi in un album che potrebbe sfogliare qualunque uomo: figlio, marito, padre. Scarabicchi non ha uno slancio meta-empirico, trascendente. Si ferma all’immanenza, al doloroso passaggio sulla terra che avviene una sola volta, per chi, paziente e silenzioso, attende la luce e l’ombra, il giorno e la notte, la veglia e il sogno. Un poeta garbato ed elegante dai cui versi epigrammatici si avverte il pensiero dominante di Saba, di Gatto, di quella poesia onesta composta di frammenti e verità malinconiche, sapienti: un infinito leopardiano tratto dall’insegnamento di quel nulla a cui siamo destinati dalla periferia del mondo. “Il poco più di notte / che si attarda / sul manto delle ore / non tradisce / quel che di te non dici, / gli anni muti / scivolati nel fondo, in lontananza”.