Giovedì 18 aprile 2024, ore 20:18

Addio a Jean-Luc Godard

Il cinema è il cinema

di ENZO VERRENGIA

L’ultimo respiro Jean-Luc Godard l’ha esalato a 91 anni. E sparisce non in dissolvenza a chiudere ma con un rapido taglio di montaggio, di quelli che caratterizzarono la sua rivoluzione del racconto per immagini. Il cinema è il cinema, recita il titolo del suo saggio sulla Settima Arte. Scrive Godard: «I nostri primi film sono stati semplicemente film di cinefili. Ci si può servire anche di quello che si è visto al cinema per fare deliberatamente delle citazioni. Questo è stato soprattutto il mio caso. Ragionavo in funzione di atteggiamenti puramente cinematografici. Facevo certe inquadrature sulla falsariga di altre che già conoscevo, di Preminger, Cukor, e via dicendo».

La figura di Godard emerge dal periodo più fertile della cultura francese. Roland Barthes aveva pubblicato Miti d’oggi. Esistenzialismo, antropologia, marxismo-strutturalismo e psicanalisi riletta sfociavano nei codici interpretativi della contemporaneità, che mancavano perfino agli americani, così avanzati nelle loro umanities.

Per Godard, il cinéma verité dava forma visuale al blob della polisemia, del montaggio analogico, della scomposizione narrativa. Di qui l’unicum di À bout de souffle, fino all’ultimo respiro, che nel 1960 esplode nelle sale di tutto il mondo con il sorriso enigmatico di Jean Seberg e un Jean Paul Belmondo brechtiano.

Godard aveva una formazione accademica da etnologo, che si riversò nelle sue concezioni del mondo, della società, dell’espressione creativa. Infatti cominciò da critico, prima sulla Gazette du Cinéma, quindi sui mitici Cahiers du cinéma, palestra di una generazione di registi che avrebbero fatto la grandezza del cinema francese dalla fine degli anni ’50 ai ’70 e oltre. Godard rappresentava la realtà nutrito di un background avanzatissimo ancora oggi. Attuò la camera-stylo, teorizzata da Alexandre Astruc in un articolo del 1948, overo l’impiego di una cinepresa non prigioniera cinetica, parte attiva del movimento di ripresa che André Bazin definiva “la morte al lavoro”. In pratica l’anticipazione della steadycam, incorporata nell’esoscheletro indossato dall’operatore, e poi dei droni dagli obiettivi capaci di spingere l’occhio elettronico dov’è impossibile per quello umano.

Godard si cimenta in una stagione di capolavori che costituivano il repertorio iconografico della società postmoderna di Jean-François Lyotard.

In Fino all’ultimo respiro sono contenuti tutti gli stilemi di Godard. Il flashback, il camera look, lo sguardo in macchina, tabù nel cinema tradizionale, l’inserimento di epigrafi e aforismi di filosofi e pensatori.

In Due o tre cose che so di lei Godard smaschera i sondaggi, ora indispensabili ai politici, perché alle domande degli intervistatori si può mentire. Questo deve sfatare la sua associazione al ’68. Godard non si poteva irreggimentare: «Non si fa mai esattamente quello che si credeva di fare. A volte si arriva addirittura a fare il contrario. Almeno, a me capita così; ma allo stesso tempo rivendico tutto quello che ho fatto».

 

( 13 settembre 2022 )

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