A come Amore, Allegria, Amicizia… “B” come Bambino, Bellezza, Baci… “C” come Cuore, Casa, Cinema… e via cosi.
Ogni lettera dell’alfabeto doveva dare a Goffredo Parise l’ispirazione per un breve racconto, anzi per una “poesia in prosa” come preferiva dire lui.
L’idea era quella di completare l’intero sillabario, arrivando fino alla zeta. Ma il progetto non andò in porto, perché arrivato alla lettera “S” Parise, sono parole sue, venne “abbandonato dalla poesia”. In che senso “abbandonato”? Parise lo spiegò così: “La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi, e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’a more”.
Tuttavia, anche se incompiuti, i “Sillabari” hanno lasciato un segno nella letteratura italiana. Usciti in tre riprese - il primo volume nel 1972 con Einaudi, il secondo dieci anni dopo con Mondadori, l’ultimo con Adelphi nel 2009 - sono straordinarie lezioni che insegnano come si scrive un racconto.
Si parte ovviamente dall’in cipit che Parise “ruba” solitamente a qualche favola per bambini, poi la narrazione prosegue con grande scorrevolezza, con semplicità, fino a una piccola- grande sorpresa finale. Nato a Vicenza nel 1929, e morto a Treviso a 57 anni, Goffredo Parise ebbe un’in fanzia e una giovinezza complicate. Senza un padre (mamma Wanda era una ragazza madre) fu costretto a crescere in fretta. A quindici anni, pensate, prese parte alla resistenza nella provincia di Vicenza. Dopo la guerra conseguì la maturità classica preparandosi come privatista, per poi iscriversi all’università inseguendo una laurea mai raggiunta. A quei tempi il giovane Parise era già stato folgorato dall’amore per la scrittura, prima come giornalista, collaborando con l’Alto Adige di Bolzano, L’A rena di Verona e il “Cor riere della Sera”, poi come scrittore. Aveva soltanto 21 anni quando scrisse il suo primo libro, “Il ragazzo morto e le comete”. Seguì due anni dopo “La grande vacanza” e nel 1954 il grande successo con “Il prete bello”, il romanzo che lo fece conoscere in tutto il mondo.
Il successo del libro fu clamoroso. Ambientato negli anni nel 1940, ha come protagonista don Gastone, un prete sanguigno, elegante, indomito. Ma don Gastone non è l’unico accentratore della storia. Il romanzo straripa di personaggi: ci sono mamma e figlia Walenska, c’è il cavalier Esposito impegnatissimo a tenere a freno le voglie delle sue cinque figlie; c’è la signorina Immacolata, non più giovanissima, che incanta con la sua eleganza e col suo portamento; c’è in particolare una banda di ragazzini terribili che ogni giorno ne inventano una e a raccontarlo è il giovanissimo Sergio, aiutato dall’amico Cena. E come lo racconta? In un linguaggio che anche stavolta, come nei “Silla bari”, sta a metà strada tra prosa e poesia.
Grazie al “prete bello”, Goffredo Parise trova posto nell’O limpo della letteratura. Diventa amico di Montale, che lo stima altissimo, di Piovene, di Carlo Emilio Gadda. Trova anche moglie, la vicentina Mariolina Sperotti.
Negli anni Sessanta Parise scoprì di avere l’animo del viaggiatore.
Andò prima a New York, poi a Londra, Parigi, Mosca, Tokyo. E ancora: la curiosità lo portò in Cina, nel Laos, in Malesia e in Vietnam. E ogni volta nasceva un reportage che veniva pubblicato sul “Corriere della Sera”.
Nel 1963 la sua vita cambiò. Fallito il matrimonio, Parise trovò una nuova compagna che gli sarebbe stata accanto fino all’ul timo istante di vita. Ultimo istante che è datato 31 agosto 1986, ma era in realtà atteso dalla primavera del 1979, quando lo scrittore era stato colto da un bruttissimo infarto. Si riprese, continuò a scrivere e viaggiare, ma non riuscì a venirne fuori. Nel 1980 gli vennero impiantati quattro bypass aorto-coronarici, l’anno successivo entrò in dialisi e a poco a poco si spense. Ricoverato nel 1986 all’ospedale Ca’ Fondello di Treviso non riuscì più ad alzarsi dal letto e il respiro si fece giorno dopo giorno più difficoltoso. La mattina del 31 agosto gli infermieri cercarono di metterlo in una posizione più comoda perché potesse respirare, ma lo scrittore-poeta dei “Sillabari” e del “Prete bello” li fermò: “ Non ne vale la pena” disse con un filo di voce. E morì.