Compie cinquant’anni “Totalità” e infinito del filosofo lituano-francese Emanuel Lévinas che ha ripensato l’etica del Novecento a partire dal fuori, dal volto dell’altro: l’altro (lo straniero, la vedova, l’orfano, la vittima, l’inerme) che non si lascia conoscere razionalmente ma mi sta di fronte con tutto il carico della sua indigenza e sofferenza.
Una concezione che viene dalla Bibbia, dall’ebraismo e che salda in un’ottica di emancipazione i tre grandi ambiti (la metafisica, l’etica e la politica) della filosofia.
Un fatto metafisico è che l’altro, nella sua infinitezza, non possa essere integrato nelle mie categorie o ad esse assimilato; un fatto etico è che si debba ascoltarlo e rispondere alle domande che mi rivolge; un fatto politico è che io senta “l’offesa dell’offeso” e mi impegni per ripararla.
E’ questo sentimento del faccia a faccia, della frontalità che sostituisce la lateralità, il cuore di una filosofia che mette sotto pressione l’autoreferenzialità cartesiana, la “struttura di un soggetto che dopo ogni avventura fa ritorno alla sua isola”. Se la modernità è quella di Ulisse che esce da sé ma per far ritorno a sé, secondo un modello dialettico e totalizzante (l’imperialismo dell’identità), Lévinas vuole essere espressamente antimoderno e inattuale. E lo è sin dal titolo (Totalità e infinito) e dal sottotitolo (Saggio sull’esteriorità) del suo capolavoro.
La sua etica non muove dall’io, se non in seconda battuta, e se l’io entra in gioco è solo in quanto è chiamato a rispondere a un appello che viene da fuori.
Non solo l’io, ma persino Dio è secondario se è vero che è il volto della vittima che me lo ricorda e me lo avvicina. E anche la pura legge morale kantiana, in quanto prodotto di una soggettività autocosciente, è subordinata all’intersoggettività e al dialogo.
In fondo “dire io significa solo possedere un posto privilegiato rispetto alle responsabilità nelle quali nessuno mi può sostituire e dalle quali nessuno mi può liberare”