Giovedì 18 aprile 2024, ore 19:47

Dibattito

Dire addio alla verità?

Il concetto di verità oggi sembra stia perdendo forza, addirittura quando la verità è evidente e innegabile sembra diventato possibile negarla. Questo si è palesato nei confronti della ricerca scientifica con la pandemia, si sta tragicamente palesando con la guerra in Ucraina, ma a mio avviso le ragioni del depotenziamento del concetto di verità scavano più in profondità...
Sì, si è ritenuto possibile dire addio alla verità. Ciò ha corrisposto un po’ anche allo spirito del tempo: antidogmatico, pluralistico, che preferisce spesso privilegiare le differenze piuttosto di cercare le convergenze. Il diffondersi delle modalità di espressione attraverso i social e le piattaforme, con la polarizzazione delle opinioni che tali programmi veicolano, ha poi reso mentalità comune questo congedo dalla valorizzazione di un discorso vero.
Ciò è la conseguenza di una serie di confusioni. Si è confusa l’affermazione della verità con il dogmatismo. Si è ritenuto che se si dice qualcosa di vero le tesi altrui sono tutte false. È sembrato bello, spesso, privilegiare una colorata babele invece di un effettivo, e magari faticoso, incontro reciproco. Il risultato in molti casi è stato quello di far ritornare nelle nostre relazioni quella violenza, e l’ideologia che è al suo servizio per dissimularla, che si riteneva eliminata da uno scenario in cui nessuno più riteneva di dover convergere insieme agli altri su qualcosa di vero. È rimasta solo la legge del più forte.
In realtà non si è fatto – e non lo hanno fatto neppure coloro che erano chiamati a farlo, cioè i filosofi – ciò che era necessario in questi casi: un effettivo approfondimento di ciò che voleva dire “dire la verità”. “Verità” si dice infatti in molti modi. E non tutti hanno quei difetti che hanno spinto ad abbandonare la sua ricerca. Non c’è solo, infatti, la verità come corrispondenza, esclusiva ed escludente, tra ciò che uno dice (o pensa) e ciò che. Si tratta della concezione inaugurata da Aristotele e collegata alla sua specifica idea di un linguaggio fatto di asserzioni che determinano ciò che è. In questa prospettiva, proprio per evitare che prenda il sopravvento l’opinione del più forte, si cerca un accordo al di là delle opinioni, ma si corre il rischio di trascurare le incertezze e d’imporre come assoluta una verità che è solo parziale. Accanto a questa idea, però, c’è anche un modo d’intendere la verità come un processo di manifestazione, come qualcosa che viene rivelato. Non si tratta di prendere o lasciare qualcosa, ma di verificarla sempre criticamente, anche se non sempre abbiamo le competenze per farlo. E infine esiste un senso di verità che la intende come ciò che viene testimoniato da qualcuno che vi crede. Qui non c’è la possibilità di una verifica oggettiva o intersoggettiva. Qui la verifica è data dal fatto che il rapporto di coinvolgimento personale con qualcosa che si assume come vero cambia radicalmente la propria vita. Ma non è detto che, appunto perciò, questa prospettiva la si debba imporre agli altri. 
Un tema che va poi affrontato è quello delle competenze, ed è direttamente collegato al mondo dei social su quale torneremo. Oggi tutti espongono il proprio punto di vista su tutto in maniera compulsiva col risultato che rischia di non diventare più vero niente...
Questo oggi lo abbiamo sotto gli occhi. Se viene meno la possibilità del riferimento – sempre rivedibile, sempre verificabile – a qualcosa di vero, su cui si concorda intersoggettivamente, resta solo la babele delle opinioni. Queste opinioni, specialmente nelle piattaforme, sono poste, sono appiattite tutte sullo stesso piano: lo dice la stessa parola “piatta-forma”. E, per la regola secondo cui basta l’accesso a un social per avere diritto di esprimere la propria opinione, su uno stesso argomento l’opinione dell’ignorante e del competente sono equivalenti. A questo punto, davvero, non è più vero nulla. O, più precisamente, è vero ciò che risulta dall’opinione della maggioranza.
Nella storia abbiamo avuto un esempio scandaloso, nell’antica Grecia, delle conseguenze di questo modo di pensare: la condanna a morte, ingiusta, di un uomo giusto, Socrate. Quest’esperienza ha fatto nascere la filosofia, come antidoto alla violenza esercitata ingiustamente e contro la verità dei fatti. Si vede che ce lo siamo dimenticato. 
Non credo che il pensiero debole abbia responsabilità su quanto sta avvenendo, una posizione filosofica appunto richiede svariate competenze e una capacità di analisi dei concetti cardini che ovviamente non si ritrovano oggi nei detrattori della verità evidente. Mi sembra che stia deflagrando quella fiducia nel vero che ha sorretto eticamente e religiosamente l'umanità
Questo è il punto centrale. Viviamo in un’epoca in cui oscilliamo fra due estremi, che sono compresenti: diffidiamo di tutto e, insieme, crediamo alle cose più improbabili, purché siano proposte in maniera persuasiva. C’è una crisi della fiducia accompagnata a un suo abuso. Ma proprio il concetto stesso di “fiducia”, nella parola inglese che la esprime – trust –, rimanda al termine tree, al solido tronco dell’albero, ben piantato nel terreno. Per prestare fiducia dobbiamo dunque essere certi di qualcosa. E la certezza non è semplicemente una sensazione individuale, il frutto di un’emozione, ma – di nuovo – dipende da ciò che possiamo verificare nella realtà e condividere intersoggettivamente.
Mi chiedo anche se secondo te il mondo virtuale dei social, di internet, abbia una sua responsabilità riguardo a questo in un senso più radicale: cioè se lo sdoppiamento del reale che avviene nel mondo dei social possa aver distorto le capacità di concepire il mondo, di interpretarlo secondo i criteri della razionalità, e di più, se il mondo stesso sia diventato doppio...
Sì, ne parlavamo prima. I social non sono neutrali. Veicolano, per la loro costruzione e i loro processi, una determinata mentalità, che ormai abbiamo fatto nostra. È una mentalità in cui, come dici, ciò che avviene negli ambienti digitali, online, è più attrattivo e prende il sopravvento sull’offline, sulla vita reale: che certo è più dura di quel che accade in rete. È una mentalità in cui le semplificazioni e le polarizzazioni si determinano perché siamo costretti a esprimerci in un certo modo, e non abbiamo la possibilità di affinare, mediare, sviluppare ciò che pensiamo. Viviamo perciò in una dimensione di disintermediazione, in cui le opinioni si sovrappongono o si contrappongono, ma dove non c’è spazio per costruire qualcosa di comune. Anche la politica ne risente. Condividere, infatti, non è partecipare. 
Non posso non chiederti infine cosa pensi dell'informazione e di come è mutata da quando ne parlavamo vent'anni fa e di come credi possa evolvere o involvere...
Oggi abbiamo certamente molte più opportunità d’informarci. Ma abbiamo troppa informazione. E abbiamo troppo poche competenze per orientarci e per selezionare le notizie. Lo fa per noi l’algoritmo, ma sappiamo che questa selezione non è neutrale. E oltre a ciò si è ormai imposta una fabbrica di false notizie – con la produzione seriale di esse, la loro condivisione automatizzata e la loro diffusione a livello globale – che rende davvero difficile informarsi adeguatamente. Lo vediamo in questi tempi di guerra. 
Tutto ciò potrebbe portare, di nuovo, all’idea che è bene non fidarsi di nulla, che la verità è un’invenzione. Sarebbe magari più comodo, ma farebbe il gioco proprio dei professionisti del depistaggio. Invece dobbiamo acquisire nuove competenze nell’attingimento e nella diffusione della verità. Esse riguardano la consapevolezza dei meccanismi secondo cui la comunicazione oggi viene veicolata, la possibilità d’incrociare i dati, la necessità di verificarli per quanto possibile in maniera diretta e, quando ciò non avviene, di sviluppare una fiducia critica nei confronti degli esperti. Tutto ciò sembra andare contro il disincanto oggi predominante. Ma se non lo faremo, ci sarà spazio solo per la legge del più forte. E così le vittime di ieri e di oggi non ci avranno insegnato nulla. 

Mauro Fabi

( 7 aprile 2022 )

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