Mercoledì 24 aprile 2024, ore 5:38

Fumetti

L'unicità di Paz

di ENZO VERRENGIA

Su Andrea Pazienza si sono scritte, si scrivono e si scriveranno molte cose. Nessuna appropriata. Innanzi tutto le sue radici. Se le disputano tre città, abbastanza piccole e accomunate da inadeguatezze tipiche della provincia. San Benedetto del Tronto, dove è solo nato. Pescara, dove ha solo studiato due anni e mezzo al Liceo Artistico. San Severo, dove si accumula TUTTA la sua mitologia di ragazzo mai giunto alla maturità. Nessuna delle tre davvero legittimata a rivendicare Paz. Lui, piuttosto, si fuse gradualmente con la San Menaio estiva delle villeggiature alto-borghesi possibili fino agli anni settanta, poi spazzate via dal riflusso, dalle multiproprietà e dal turismo esotico di massa. Nella villa di Bellariva, la parte più collinare della località garganica, Andrea andava anche e soprattutto d’inverno, a ridisegnare di continuo se stesso. Ma a luglio e ad agosto, vi soggiornava per espandere la giovinezza nelle epopee obbligatorie della tempesta ormonale. Le serate in discoteca alla Buca del Carbonaio, la corte infinita, platonica e idilliaca a Isabella Damiani. Quest’ultima assurta a icona letteraria nella biografia di Pazienza, tanto da poter essere oggi impunemente paragonata alla Daisy di Fitzgerald in “Il Grande Gatsby”.

Quei colori mediterranei, più che adriatici, si spegneranno per sempre nel più tetro dei capoluoghi italiani, Bologna. Terribile, ammuffita, tronfia nel suo comunismo consumista. Sotto quei porticati soffocanti incubava la guerriglia urbana del ’77 e adesso staziona una disumanità punkabbestia che deturpa l’architettura medievale con graffiti e ringhi di molossi.

Bologna è la meno autorizzata ad appropriarsi di Pazienza. Come pure Montepulciano, dove di fatto si ebbe solo la sua morte.

Lo stesso dicasi per gli amici.

Ciò che resta della spazzatura pseudoculturale di un decennio da cancellare ha ancora il coraggio di farsi avanti a ogni ricorrenza pazienziana per esibirne la frequentazione, la condivisione, l’affinità. Quando non poteva esserci NIENTE in comune fra un qualsiasi santone delle litanie sessantottarde e un genio fresco, innocente e versatile maturato dal suo stesso codice genetico.

L’unica vera radice di Andrea era il padre Enrico, valente acquerellista e bellissimo titano della più nobile goliardia aristocratica. Da giovane, lo si vede in foto struggenti con lo splendore della sua perfetta tonicità muscolare, sull’abbrivio di avventure degne di “Amici miei”. Enrico Pazienza avrebbe trasmesso frenesie comportamentali, scanzonatezza e arte al primogenito Andrea. Non per caso, padre e figlio stavano per ricomporsi nella mostra da tenersi a Peschici nella torrida e tragica estate del 1988. Andrea non la vide mai, perché spirò il 16 giugno.

Allora niente e nessuno e nessun luogo può accampare comunanze con l’unicità di Paz, che è e resterà sempre e soltanto se stesso.

Quando nel 1976 cominciò a lavorare sulle tavole di Pentothal, Andrea non aveva alcuna intenzione di creare l’affresco della gioventù dissennata e per certi versi oscena di quegli anni. Intendeva raccontare se stesso e i pochi veri amici che gli stavano fisicamente vicino. I primi iscritti di San Severo al DAMS di Bologna. Arrivati sotto le due torri senza sapere nulla dell’orrendo clima emiliano, dell’opulenza cafona di signore ingioiellate, impellicciate e scosciate che bevevano ogni mattina l’aperitivo sotto i portici, all’aperto, nel freddo, per attendere gli amanti in un’Italia già beneficiata dal divorzio ma non per questo aliena dall’adulterio, più eccitante di una leale rottura di matrimonio.

Andrea e i suoi amici venivano da un sud molto più dignitoso, dove il comunismo e le lotte di popolo si erano combattuti nelle campagne, con Allegato e Di Vittorio che ammonivano a non inseguire modelli metropolitani bensì a restare ancorati nei propri modi di vita. Le differenze di classe, in Puglia, si misuravano ancora nello stile. La borghesia si esprimeva nei dignitosi posti pubblici, nelle professioni, nel benessere misurato e non ostentato. Andrea e i suoi amici venivano da condomini surriscaldati dai termosifoni anche nel corso della crisi energetica. Con le feste in casa, i cenoni natalizi, i pranzi pasquali e le “visite” di zie attempate e sussiegose. Certo, lui nel messo ci aveva messo i due anni e mezzo a Pescara, parodia fin dall’epoca di una Los Angeles cialtrona. Nel centro rivierasco abruzzese, Andrea aveva appreso la futilità dell’apparire. Perciò si era divertito a cercare sostanza nelle pieghe un po’ creative della città dannunziana. Gli abruzzesi avevano cominciato a sfruttarlo già da quel tempo. Gli compravano sottocosto quadri che ora hanno un valore enorme (peraltro, nessuno si è preoccupato di quotare Pazienza).

Nelle tavole di Pentothal, dunque, c’è il portato esistenziale di un viaggiatore dell’essere.

Anno accademico 1974-75. A Bologna fa freddo sotto i portici. Specie quelli di Strada Maggiore, dove il sole sembra non battere mai. Ma la temperatura creativa è altissima al n. 34, Palazzo Sanguinetti. Specie nel corridoio d’ingresso, parte del peristilio, affollato di barbe, occhialini cerchiati di metallo, esquimi e poncho, avviluppati da nubi invisibili di patchouli e fumi inebrianti. È il DAMS, Dipartimento delle Arti, della Musica e dello Spettacolo, fondato appena tre anni prima dal grecista Benedetto Marzullo, che presto vi aveva associato il gotha dell’intellighenzia peninsulare. Fra cui spicca, non solo per autorevolezza ma anche per statura e imponenza, Umberto Eco. La sua figura titanica, paludata di montone e cappello a larga tesa, avanza nel pollaio di post sessantottini e pre settantasettini emanando la sacralità laica della cultura. Una cultura immane quanto lui che ne è depositario. Infinita. Tanto che verrà da pensare a un Eco infinito persino nella sua fisicità, e questo ne rende ancora più traumatica la perdita.

Alle sue lezioni di semiotica s’impara la decodificazione del tutto, della realtà, forse di se stessi. Difficile comprenderlo per una generazione ipnotizzata dagli slogan. Non che lui fosse un barone, una cariatide, un dinosauro, come dirà di se stesso Mario Schiano interpretando un professore universitario in “La meglio gioventù”, il film di Marco Tullio Giordana datato 2003. Al contrario, Umberto Eco è intrinseco alla contemporaneità, la analizza, la capisce e la spiega nel suo divenire. Con un linguaggio che non può contrarsi né nelle semplificazioni retoriche né nei labirinti del sinistrese. Lui, mentre la cultura italiana è ferma a Gentile e, sul versante opposto, a Gramsci, importa lo strutturalismo francese sfruttando la sua conoscenza della lingua e della cultura d’oltralpe. Lo ricorda nella prefazione al suo saggio più rappresentativo, “Apocalittici e integrati”, la risposta articolata e documentata a “Eclissi dell’intellettuale”, di Elémire Zolla. La tesi di Eco era che i nuovi mezzi di comunicazione di massa e la riproducibilità dell’opera d’arte allargavano la crescita civile. Il contrario dell’apocalisse di Zolla. Scrive Eco presentando una nuova edizione del libro: «Nel 1961 Gilbert Cohen-Séat aveva organizzato a Milano un convegno sulla civiltà visiva e io lo avevo trascinato nel 1962 in Bompiani…» Il personaggio citato era il massimo esponente di storia e teoria del cinema in Francia. Un caposaldo della cultura sprovincializzata ed europea che sorpassava a velocità elevata la sociologia angloamericana.

Al freddo di Bologna e al calore bianco del DAMS Eco rappresentava soprattutto ciò che oggi si potrebbe definire Wikipedia fatta persona. Fra i suoi adoratori c’è Andrea Pazienza. Ha appena finito di disegnare una storia a fumetti in cui coniuga l’autobiografia più intimista e lirica con le trasgressioni e i gerghi dell’ultima ondata. Umberto Eco ha le antenne tese, è lui che nel 1965 ha fondato con Elio Vittorini e Oreste Del Buono il mensile “Linus”. Discerne il genio di Pazienza e gliene fornisce lo sbocco. Chiama Oreste Del Buono, che a Milano dirige “Linus” e “Alter Alter”. Su quest’ultimo esordisce Paz. Non importa che le sue vignette si arrestino prima degli scontri, di Radio Alice e di Francesco Russo. “Tagliato fuori! Sono completamente tagliato fuori!” rosica Pentothal nella tavola aggiunta al momento di andare in stampa. Anzi, così il protagonista è più vero, più genuino, più scontornato.

Il resto è mito.

 

 

( 21 febbraio 2021 )

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