Sabato 20 aprile 2024, ore 15:47

Scenari

Bhopal, l’Hiroshima della chimica. Tragedia da non dimenticare

Ogni anno dal 2018, Janki Rekhwar, di 80 anni, visita il Neelam Park a Bhopal, nel Madhya Pradesh, per rendere omaggio alle vittime della tragedia di Bhopal e chiedere giustizia al governo. Circa 40 tonnellate di gas di isocianato di metile fuoriuscirono da un impianto di pesticidi controllato dalla multinazionale statunitense Union Carbide Corporation (Ucc) cinque minuti dopo la mezzanotte del 3 dicembre 1984, e furono trasportate dal vento nelle vicine bidonvilles di Bhopal. Una valvola difettosa aveva spinto l’acqua di una tubatura nel serbatoio n. 610, dove era contenuto l’isocianato di metile (Mic), sostanza chimica 500 volte più pericolosa del cianuro per l’uomo, provocando una reazione chimica così violenta che le pareti d’acciaio del serbatoio e il bunker in cemento armato in cui era chiuso saltarono in aria. Fu l’Hiroshima della chimica. Un incubo. Il peggiore mai vissuto dall’industria di tutti i tempi. Un disastro umano, ambientale, sociale ed economico. Non si conosce nemmeno il numero esatto dei morti. Le stime parlano di 10 mila vittime nelle prime 48 ore, di circa 16 mila nei giorni immediatamente successivi e di mezzo milione di contaminati. Ma è impossibile saperlo. L’isocianato di metile (in sigla Mic), col suo caratteristico odore di cavolo lesso, rende ciechi all’istante, blocca i polmoni e brucia i pigmenti. Il cianuro dice al cervello di smettere di respirare. Il fosgene uccide facendo soffocare nel proprio sangue. Rekhwar ha perso tre membri della famiglia nella tragedia: suo marito, una figlia di 7 anni e suo suocero. “Abbiamo lasciato le nostre case indossando trapunte bagnate per salvarci la vita in quella notte nera. Tutti correvano per salvarsi la vita. A nessuno importava di nessuno. Le persone hanno perso i loro figli. Nemmeno il bestiame è sopravvissuto al gas velenoso”, ha ricordato Janki. Secondo il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) delle Nazioni Unite, almeno 30 tonnellate di gas velenoso hanno danneggiato più di 600.000 lavoratori e abitanti vicini. Quello di Bhopal è considerato uno dei peggiori disastri industriali della storia. Gli orrori di quella notte sono ancora vivi nei ricordi degli abitanti. In occasione del 38° anniversario della tragedia, quasi 800 vittime hanno protestato al Neelam Park prima di partire per Delhi e chiedere giustizia per le vittime, rivendicando un nuovo risarcimento alla Union Carbide e alla Dow Chemical Company. Il governo ha pagato a Janki Rekhwar solo 25.000 rupie (289 euro circa), lei oggi sopravvive lavorando come domestica ma dice che questo non è sufficiente poiché la tragedia ha sradicato la loro famiglia lasciandola senza un’adeguata fonte di sostentamento: “La mia unica figlia sopravvissuta non può camminare correttamente perché il gas le ha causato l’asma” . Soffrendo di una malattia agli occhi, Janki ha detto che la sua unica speranza è con il governo: “Tutta la mia vita è in qualche modo passata. Ho perso tutto. Faccio appello al governo affinché mi risarcisca per la perdita in modo che io possa curare la mia malattia e sopravvivere ai miei giorni rimanenti”, ha detto. Il governo ha dunque richiesto alla Corte Suprema un risarcimento aggiuntivo da Dow, di oltre dieci volte l’importo che offrì nel 1989, affermando che “non può abbandonare” il popolo. La Corte suprema si pronuncerà a gennaio prossimo. Secondo i resoconti, ci sono ancora molti tumori non curati, cecità, problemi respiratori, malattie immunologiche e neurologiche. L’ufficio studi della multinazionale dichiarò ai tempi della costruzione dell’impianto che quella realizzata a Bhopal sarebbe stata “sicura come una fabbrica di cioccolata”. Ma ci furono da subito problemi ambientali: acqua contaminata nei pozzi, animali morti e gente che stava male. Agli abitanti delle baraccopoli bruciavano spesso occhi e gola. Ma la Carbide dava lavoro, era gentile, regalava dolci nelle feste comandate e se moriva una mucca per colpa loro ne rendeva indietro tre. La prima vittima tra gli operai c’era stata nel 1981: Mohammed Asharaf, operaio capoturno al fosgene. Una goccia di gas gli cascò sulla maglia e lui per lavarlo via, si tolse un attimo la maschera antigas. Gli scappò un solo respiro, e gli costò la vita. E’ andata decisamente meglio a Warren Anderson, presidente della Ucc all’epoca del disastro e oggi latitante per non essere comparso nel processo penale: dopo il mandato di cattura internazionale spiccato a seguito delle denunce delle associazioni delle vittime, deve essere imputato non più di omicidio, ma di negligenza, rischiando una leggera multa o un paio d’anni di galera. E mentre questo signore, in pensione dall’86 nel suo buen retiro di Vero Beach in Florida, sorseggia cocktail in piscina, a Bhopal si continua a morire. Greenpeace, nel 1999, ha fatto analizzare le falde acquifere nei terreni intorno alla fabbrica, dove ancora vivono migliaia di persone nelle baracche e ha dichiarato ufficialmente che la fabbrica della Union Carbide India Ltd di Bhopal è ancora “ad alto rischio tossico”. Fermate una persona a caso: chiedetele di Chernobyl e saprà di cosa si parla. Chiedetele di Bhopal e nella maggior parte dei casi vi guarderà interdetto. E così che l’azienda americana Union Carbide Corporation (Ucc) ha continuato a vendere i suoi prodotti in India mentre eludeva il processo penale: lo ha rivelato Al Jazeera. L’unità indiana dell’Ucc fu chiusa e la maggior parte delle sue filiali furono sequestrate. Eppure, secondo un dossier reso noto da Al Jazeera, quasi tre anni dopo la fuga di gas tossico nel 1984, la società ha fondato una società di commercio di sostanze chimiche - Visa Petrochemicals Private Limited - a Mumbai e ha venduto discretamente i suoi prodotti per i successivi 14 anni a diverse aziende di proprietà della centrale e governi statali e poche aziende private. Tra gli acquirenti, sorprendentemente, c’era anche il governo del Madhya Pradesh, dove si trova Bhopal. L’azienda aveva anche istituito tre società di comodo in India, Stati Uniti e Singapore rinominando i suoi prodotti e canalizzandoli attraverso più porti. La Union Carbide non subì mai alcun processo. Dominique Lapierre (morto proprio in questi giorni dell’anniversario dell’incidente) e Javier Moro, nel loro dettagliato libro-inchiesta sulla struggente avventura umana e tecnologica che portò alla tradedia, raccontano di una famiglia di contadini indiani cacciati dalla loro terra; di tre entomologi di New York che inventano un pesticida miracoloso; del gigante chimico che trova un gas mortale per produrlo; dei festeggiamenti e delle gioie dei dannati in una baraccopoli; di eunuchi e principesse che stregano gli ingegneri d’America; di un operaio innamorato di poesia che scatena l’apocalisse; di medici che muoiono resuscitando le vittime bocca a bocca; di una sposa che sfugge al rogo grazie alla piccola croce che porta al collo. Una tragedia costellata di vite spezzate, monito per apprendisti stregoni che vogliono ingordamente decidere per altri. Una strage dimenticata.
Raffaella Vitulano

( 6 dicembre 2022 )

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