Martedì 14 maggio 2024, ore 15:08

Politica 

Riforme istituzionali, il confronto non decolla 

Il dialogo sulle riforme non decolla. Solo Italia viva apre in maniera convinta all’elezione diretta del premier - una delle due opzioni proposte dal Governo - mentre Pd, M5s, Più Europa e Verdi-Sinistra bocciano la linea Meloni. La segreteria dem Elly Schlein, in particolare, chiarisce che la possibilità di un confronto dipende innanzitutto dall’atteggiamento dell’Esecutivo e che ”iniziare dicendo che si deve eleggere direttamente il presidente o il premier significa presentare un lavoro già fatto, da prendere o lasciare”. In realtà, negli incontri di martedì con le opposizioni, Meloni ha per prima cosa insistito sulla stabilità e sulla necessità di garantire un legame tra voto degli elettori e possibilità di portare avanti il programma di Governo. Per mettere poi sul tavolo le priorità del suo Esecutivo: l’elezione diretta del presidente della Repubblica o del premier. Con la previsione che se cade il capo del Governo, cade il Parlamento e si torna al voto. Proprio quello che il Pd non intende accettare. Al contrario, i democratici sono disponibili a ragionare su misure che razionalizzino il sistema parlamentare, limitando le crisi al buio con la sfiducia costruttiva alla tedesca o seguendo lo schema spagnolo. Contro l’elezione diretta netto anche il no di Verdi-Sinistra e di Più Europa, Mentre il Movimento 5 Stelle non dice esplicitamente no all’elezione diretta del premier ma chiede che ”il rafforzamento dei poteri del premier garantisca comunque un quadro che si conservi complessivamente equilibrato”; e che ”non si mortifichi il modello parlamentare che è molto utile per garantire inclusività e favorire la composizione dei conflitti”. Conte, peraltro, apre al dialogo in una ”commissione parlamentare costituita ad hoc”. Un passaggio che in casa Pd non è stato particolarmente apprezzato. Anche perché nel corso della storia della Repubblica questa via si è sempre rivelata fallimentare.
La vera sponda al Governo è arrivata dal Terzo polo, anche se con sfumature diverse tra Azione e Italia Viva. Calenda che ha annunciato l’intenzione di collaborare, escludendo la strada dell’Aventino. Ma appunto nel merito le posizioni tra i centristi non sono identiche. Per l’ex ministra delle Riforme Maria Elena Boschi ”è fondamentale l’elezione diretta del premier”; mentre Calenda parla più genericamente di ”indicazione” del presidente del Consiglio, elencando un range di ipotesi che va dal ”sindaco d'Italia” fino ”all'indicazione del presidente del Consiglio come avviene in altri Paesi”.
Distinzioni ci sono anche all’interno della maggioranza di centrodestra. Forza Italia sembra sempre più a favore del premierato. Il capogruppo della Lega Molinari ha ricordato che nel programma del centrodestra si parla di elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma dietro le quinte si monitora anche l’iter dell’autonomia differenziata, osteggiata dalle opposizioni e che divide i presidenti di Regione. Il ministro degli Affari regionali Calderoli ha insediato il Comitato che si occuperà dei Livelli essenziali di prestazione e che è composto da 61 esperti. Fratelli d’Italia punta a ”livellare” l'iter delle riforme costituzionali con quello dell’autonomia differenziata. Il Governo ha peraltro già pronto anche un provvedimento su Roma capitale.
Ora, dopo il giro di tavolo con le opposizioni, i fari sono puntati sulla tempistica sulle riforme. La ministra delle Riforme Casellati ha indicato in fine giugno la dead line.
Il prossimo appuntamento sulle riforme è fissato per mercoledì 17 maggio, quando è in programma un convegno nel Parlamento del Cnel che sarà aperto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano. Parteciperanno anche la Ministra Casellati e molti costituzionalisti. Si attende anche e soprattutto un segnale sull’ipotesi al momento più concreta, quella legata al premierato.
Sembra intanto impercorribile la strada di una commissione parlamentare, evocata da leader del M5S Conte. Nel corso della storia della Repubblica questa via si è sempre rivelata fallimentare. La prima commissione bicamerale risale al 1983. Presieduta dal deputato Aldo Bozzi, il progetto di riforma prevedeva la revisione di 44 articoli afferenti vari ambiti della Costituzione. L'avvio dell'esame parlamentare, però, fu rimesso all'iniziativa dei gruppi politici che non riuscirono a trovare un accordo. Stesso esito ebbe il tentativo della commissione De Mita-Iotti, che poneva al centro del progetto di revisione un’ampia riforma del rapporto Stato-regioni e la definizione di una forma di governo neoparlamentare. Il testo, però, non fu nemmeno esaminato a causa della conclusione anticipata della legislatura. La terza bicamerale fu istituita nel 1997 dopo l'ormai famoso patto suggellato a casa di Gianni Letta tra D'Alema e Berlusconi. Presieduta dal leader del Pds, aveva l'ambizione di riformare la seconda parte della Costituzione. In questo caso, i lavori furono abbandonati in ragione di divergenze politiche tra i partiti coinvolti. A seguito del fallimento delle bicamerali di questi anni, le successive proposte di riforma hanno seguito il classico iter previsto dall'art.138 della Carta costituzionale. Di norma, infatti, le leggi di revisione costituzionale sono votate da entrambe le Camere per due volte successive, con un intervallo non inferiore a tre mesi. Dopo la pubblicazione, se richiesto, si può procedere con il referendum popolare, il passaggio che determina la bocciatura o l’approvazione definitiva del testo. È questo il caso della riforma del titolo V della Costituzione voluta dall'allora premier Amato agli sgoccioli della legislatura e approvata tramite referendum confermativo il 7 ottobre 2001 durante il successivo governo Berlusconi. Cinque anni dopo i cittadini furono chiamati a votare un'altra riforma avanzata dall’Esecutivo guidato dal leader di Forza Italia, ricordata come ”devolution” per la devoluzione dei poteri alle regioni, punto focale della proposta. Quella volta, però, il referendum popolare portò alla bocciatura del testo. Più recente è il fallimento della riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016. In questo caso si puntava al superamento del bicameralismo perfetto, alla revisione del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e all'eliminazione dal testo costituzionale del riferimento alle province e alla soppressione del Cnel. L'ultima riforma costituzionale, durante il governo Conte, fu invece votata con il referendum del 20 e 21 settembre 2020 che approvò la riduzione del numero dei parlamentari.
Giampiero Guadagni

( 10 maggio 2023 )

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