A dare uno sguardo al mondo di oggi, la galanteria sembra morta e sepolta. Se prendiamo la definizione della Treccani, essa è definibile come una «gentilezza ostentata e cerimoniosa verso le donne, dimostrata nelle parole, nell’atteggiamento e nei gesti, come comportamento occasionale o abituale». Molto banalmente può essere osservata quando un uomo lascia passare una donna tenendole la porta, o ancora quando le si cede il posto a sedere. Ecco, diciamolo pure, questi sono gesti desueti, anche se qualche nicchia “galante” rimane. In generale, si tratta di una gentilezza, non direi necessariamente «ostentata o cerimoniosa», come recita la definizione soprariportata, dal momento che questo potrebbe far pensare a qualcosa di “falso”. La galanteria ha a che fare con un codice di comportamento, con una sorta di manuale non scritto delle “buone maniere”. Certo è che se non viene più trasmessa di generazione in generazione rischia di finire nell’oblio.
In un recente volumetto Jennifer Tamas si chiede se si possa ancora essere galanti. Va subito detto che il testo è scritto da una studiosa di Letteratura francese che si proclama femminista. E dunque, nel volume forse si ricorre troppo spesso a espressioni connotate in tal senso che ne appesantiscono la lettura. L’idea della docente della Rutgers University, New Jersey, è che la galanteria vada sottratta a stereotipi di genere e pregiudizi di vario tipo che ne minano l’importanza. Per Tamas, la galanteria ha civilizzato i costumi, dal momento che ha aperto la strada al «matrimonio d’amore». Ha permesso, dunque, di «minare le norme di genere e di ripensare le istituzioni partendo dai sentimenti». Se così stanno le cose, e qui sta il punto di forza, crediamo, della tesi, è che sia necessario «galantizzare il sesso», rendendolo cioè più rispettoso della donna. Per Tamas, insomma, quest’ultima deve passare da oggetto a soggetto di desiderio, affrancandosi da un ruolo di succubanza, per non dire di sottomissione, e diventare un agente più attivo e partecipe. In buona sostanza, e per semplificare il discorso, il punto fondamentale è recuperare un senso di rispetto che sovente viene meno nei confronti del genere femminile. Il punto debole, o comunque l’argomentazione più discutibile, è in qualche modo colpevolizzare il genere maschile in quanto tale. Le generalizzazioni, si sa, racchiudono un fondo di verità.
Ma quando vengono assolutizzate si corre il rischio di prendere il tutto come valido.
In questo caso significherebbe puntare il dito contro l’uomo generico e astratto, colpevole in quanto tale e perché potenzialmente nemico della donna. Così facendo, la guerra tra sessi è dietro l’angolo e la perdita è secca: per tutti e per tutte, o viceversa, se preferite.