In cima all’inasprimento delle tensioni militari causato dalla violazione dello spazio aereo della Polonia da parte di droni russi, la chiusura positiva di Piazza Affari degli ultimi giorni, trainata anche dall’apprezzamento registrato dai titoli delle imprese del comparto della difesa, riflette tecnicamente un fenomeno normale. Quando crescono le prospettive di profitto di un determinato settore, le azioni delle aziende quotate che ne fanno parte si apprezzano. In Borsa, infatti, il valore dei titoli attualizza ad oggi i prevedibili profitti che si conseguiranno domani. Nulla di sorprendente dunque. Eppure, sotto il profilo sociopolitico, questo fenomeno applicato al suddetto caso italiano non può non destare una certa inquietudine. Per il semplice fatto che, nello specifico, le prospettive di profitti futuri sono legate all’aumento della produzione e della vendita di armamenti che deriverà dall’inasprimento delle tensioni militari scaturenti dal conflitto in Ucraina. Che spingono inevitabilmente la gran parte degli Stati europei ad aumentare le spese per la difesa. Anche in ragione dell’incremento al 5% della quota di tali spese sul Pil, che è stato fortemente sollecitato dall’amministrazione Trump ai Paesi della Nato entro il 2035. Nel solco di un trend di crescita che, per altro, si manifesta da almeno un decennio. E che, nel 2024, secondo i dati forniti recentemente dal Sipri (Stockolm International Peace Research Institute), a livello mondiale, ha visto la spesa militare raggiungere la cifra record di 2,7 trilioni di dollari. Aumentando, rispetto al 2023, del 9,3%. In questo senso, l’incremento della spesa militare dell’Europa nell’ultimo anno è stato ancora più alto, pari al 17,3%. Con punte del 28% per la Germania e del 31% per la Polonia. Che si conferma lo Stato europeo che esprime la maggior percentuale di spesa militare sul Pil: patendo, più di tutti gli altri, la pericolosa minaccia russa. Non sorprende, dunque, che alla crescita così repentina delle spese militari avvenuta in Europa e nel mondo, si accompagni un parallelo apprezzamento dei titoli delle principali aziende italiane del comparto della difesa, quali sono Leonardo e Fincantieri. Che, in una particolare classifica stilata dal Report Defense News, occupano rispettivamente il 13° e il 55° posto tra le cento aziende del settore più grandi del mondo. Con i rispettivi titoli che hanno registrato, nell’ultimo anno, una crescita a tre cifre. In questa prospettiva, quindi, il passaggio dal New Green Deal al New War Deal appare un rischio sempre più stringente. Con la conseguenza che la crescita europea sarebbe sempre più condizionata dalla domanda per il riarmo e sempre meno dallo sviluppo dell’economia verde. Nonostante le rassicurazioni giunte dalla presidente della Commissione europea Von der Leyen, nel suo recente intervento sullo stato dell’Unione, siano state volte, invece, a difendere e rilanciare il programma della transizione verde in Europa.
Per ora, i timori nei confronti di una spirale crescente delle minacce belliche in Europa, espressi anche dal Presidente della Repubblica Mattarella, che ha ricordato, come monito, i fatti tragici che condussero allo scoppio della Grande Guerra, riflettono la gravità dei momenti che stiamo vivendo. Eppure, se la prospettiva bellica si rafforza ogni giorno sempre di più, non può sorprendere che le nostre principali imprese del comparto della difesa se ne giovino. L’apprezzamento dei loro titoli non fa altro che riflettere questa situazione. Al di là delle considerazioni di tipo etico e morale, la conclusione che se ne trae appare fin troppo scontata: parafrasando il celebre Humphrey Bogart ,«è il mercato bellezza»!
Saverio Scarpellino
(Economista)