Claudio Damiani (nato nel 1957) è un poeta francescano, che sin dal lontano esordio avvenuto nel 1987, si è imposto con testi tanto semplici quanto intensi, spirituali, quasi mistici nell’affabile mitologia privata, in particolare di luoghi sconfinati, tra cui la miniera di bauxite a San Giovanni Rotondo e il villaggio animato tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, ormai in completo disfacimento. La sua ultima raccolta, Rinascita (Fazi, 2025), rievoca i giorni del bambino (dai tratti evidentemente pascoliani) che scorrazzava “nell’aria bianca luminosa” con la sua bicicletta rossa tra gli eucalipti, la mentuccia, i fichi d’India, le mandorle, il pollaio, la cagna, le formiche, i muriccioli, la stradina con la ghiaia bianca dove, di lato, c’era la casa di famiglia con le scale in bella vista e la stalla dei cavalli, testimonianza di un mondo che non tornerà e che è rimasto un’icona dal risvolto antropologico.
Ancora una volta la rinascita scopre, soprattutto con gli occhi, un mondo lontano, che assembla poesia e prose poetiche nel felice ritorno all’infanzia che non nasconde una certa inquietudine per le forme della natura, per il passaggio delle volpi, per un lupo immaginario, per le farfalle notturne, ferme, per la realtà e il sogno che si uniscono. Una poesia nuova e tradizionale, che non può non far pensare anche a Saba nella dimensione creaturale.
Un accostamento può essere fatto con la stessa, ultima raccolta di Stefano Dal Bianco, Paradiso (Garzanti, 2024), dipanata nel percorso tra i campi, nei boschi, nei sentieri del piccolo borgo protettivo. Una sorta di classicismo romantico si annida nei versi melodici di Damiani, nella calibrata tessitura rievocativa. Del resto il poeta ha sempre dichiarato che l’io e il tu sono parti uguali della comunità, della lingua, restituita in una tendenza dialogica come tipico registro espressivo. L’io è quindi una parte da prendere, è tutto ciò che fa parlare. Ad esempio sotto il ballatoio degli uffici della miniera, nella bassa costruzione accanto alle costruzioni dove fioriva la lonicera o caprifoglio.
L’intimità del poeta si allarga sull’orizzonte del promontorio montuoso del Gargano, che visto dal gradone meridionale sembrava piatto e lungo, tra le rocce emerse dal mare che costituiscono anche oggi un’ulteriore suggestione visiva. “C’è, in questa specie di piccola agorà o sagrato, forse un saluto al sole o alla notte che viene, forse un farsi coraggio, un salutarsi a vicenda. E’ qui che compare sarà avvenuto una volta, o forse più d’una - una grande falena, ferma per terra davanti a noi, con grandi occhi aperti sulle ali”. La poesia ri-crea il mondo in una direzionalità sospesa nel passato e nel presente, mai sconnessa dallo stupore dello sguardo e del ricordo, nello stimolo ad una reazione connettiva con ciò che è stato davanti al pozzo misterioso, davanti all’ascensore dove scendevano i minatori che non si vedevano mai.
“Verrebbe voglia, questo villaggio abbandonato, di seppellirlo, come si seppellisce un morto.
Sottrarlo allo scempio del tempo, toglierlo via all’abbandono”, scrive Damiani. Il recinto poetico è costruito all’aria aperta, nell’odore della terra, degli animali, dove lo spazio viene reso nitido da una verità a portata di mano da parte di un umanista del Duemila, così antico e così moderno che ripudia ogni forma di artificiosità. L’avanguardia della tradizione si innalza nell’ennesima rinascita, in una continuità leggendaria postazione.