Il woke, la coscienza della condizione emarginata degli afroamericani e delle altre etnie non bianche, risoltosi non di rado in razzismo al contrario, viene messo in discussione proprio dai suoi assertori più convinti, i democratici. A stimolarli, le analisi di Bernie Sanders, l’unico vero socialista degli Stati Uniti, che ha sempre guardato parecchio alle conquiste sociali del più efficace centrosinistra italiano. Il suo punto di partenza è la constatazione che la classe operaia d’oltreoceano e la manodopera meno qualificata non allignano soltanto nella popolazione di colore. Esiste un’ampia fascia di miseria fra i bianchi, molti dei quali alle ultime elezioni hanno creduto al populismo 4.0 di Donald Trump. I loro non sono semplicemente voti da recuperare al miglior idealismo liberal, ma anche da incanalare nello spirito primigenio della nazione americana, faro di libertà e di coesione civile, senza distinzioni di colore della pelle.
Prima di Sanders, però, il rigetto del woke e della sua matrice, il politicamente corretto, veniva dalle file dei diretti interessati. Il romanzo di Percival Everett “Cancellazione” (“Erasure”) viene trasposto nel film “American Fiction”, diretto da Cord Jefferson e premiato con l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale del 2024. Il protagonista, Thelonious “Monk” Ellison (con evidente richiamo al grande jazzista) è un docente universitario di ottima famiglia, che non riesce a sfondare sugli scaffali delle librerie perché non scrive storie “abbastanza nere”. Cioè con i luoghi comuni del ghetto, del crack, delle ragazze madri e delle gang di strada. Allora decide di sfornare un romanzo del genere, che diventa un best seller, salvo mettere in discussione l’identità di Ellison.
Prima di lui, a dare un quadro del tutto differente dell’altissima borghesia afroamericana, era stato Stephen L. Carter con “L’imperatore di Ocean Park”, saga di una famiglia nera il cui elemento di spicco era il giudice Garland. Alla sua morte, il figlio Talcott, accademico come il personaggio di Everett, scopre un segreto di famiglia sepolto nel passato, e la trama sfocia nel thriller più classico.
Entrambe le succitate cornici narrative rimandano alla Gold Coast, il quartiere di Washington abitato dalla affluent colored class, la classe benestante di colore, che non ha nulla da spartire con i diseredati reclusi nella cintura periferica della capitale. Si è agli antipodi, dunque, degli scenari e delle tematiche di Richard Wright e del suo epigono James Baldwin, cantori dell’avvilimento imposto dal segregazionismo, non riscattato neanche dalla guerra civile e dall’executive order n. 10925 emesso dal presidente Kennedy il 6 marzo 1961, poi implementato da Johnson con il n. 11246 dello stesso mese ma nel 1965.
Il woke ha un cuore più antico delle banalizzazioni mediatiche.
Il politicamente corretto germoglia negli anni ’30. Tra le file della sinistra americana si affermò una scuola di pensiero che sosteneva la necessità di cominciare la lotta per una società ugualitaria persino depurando il lessico. Fu comunque alla fine degli anni ’80 che presso la Michigan University di Ann Arbor acquisì consistenza un impulso al multiculturalismo e alla tolleranza reciproca. Agli studenti venne imposto uno “speech code”, la condotta verbale, volta a limitare gli appellativi razzisti, che prima circolavano con troppa e incontrollata disinvoltura. La sua violazione influiva negativamente sulla carriera accademica.
Il politicamente corretto divenne ben presto un fenomeno di costume. Fra i suoi più salaci osservatori, l’australiano naturalizzato newyorkese Robert Hughes, che nel 1994 pubblicò “La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto”. In questo saggio memorabile, l’autore segnalava gli eccessi di un intento partito con buone intenzioni e finito nel paradosso. Quando non nella controcensura. Hughes, critico d’arte per il settimanale “Time”, si soffermava in particolare sulla parzialità di valutazione di quadri, sculture e installazioni a partire dall’appartenenza etnica di chi le realizzava. Il vantaggio andava sempre ad afro-americani, ispanici e a chiunque non fosse WASP, “white anglo-saxon protestant”, bianco anglo-sassone protestante. I libri di Storia subivano una riscrittura a favore dei nativi, gli indiani, che avevano subito la pressione dei coloni venuti dall’Europa.
Antonio Di Bella è stato l’autore di un pamphlet, “Le giacche blu stanno facendo a pezzi i blue jeans", in cui esaminava gli effetti del politicamente corretto sul linguaggio. Scriveva nella prefazione Furio Colombo: «Blocchi di parole passano intatte dalla conversazione comune alla lingua colta, dal supermercato all’università…» E in questa traslazione, il politicamente corretto cresceva su se stesso, fino a dettare modalità di interscambio dove le sensibilità reciproche diventavano focolai di conflitto interpersonale.
Enzo Verrengia