Tra i precari del giornalismo che ieri hanno protestato per lo stato di crisi dell’editoria italiana, qualcuno ha detto una verità scomoda: che dopo la transizione ecologica e la transizione digitale, ora si rende urgente una transizione retributiva. Vero, sacrosanto.
Un articolo non può essere pagato 5 euro, perché se un giornalista percepisce questa cifra per un articolo – un articolo di giornale può far cadere un governo o incastrare un mafioso – vuol dire che o lui o il suo editore sono fuori mercato. Se è l’editore a essere fuori mercato – a non poter pagare più di 5 euro un articolo – allora non si capisce per quale motivo si ostini a stare sul mercato; ma se l’editore è finanziariamente solido e paga 5 euro un articolo, allora vuol dire che il giornalista è fuori mercato non per sua debolezza professionale, ma perché le leggi a tutela dei precari dell’informazione, dei cosiddetti riders del giornalismo, sono troppo deboli.
Eppure questo è il dito, non la luna, perché la luna del problema dell’editoria è riassumibile in una sola parola: gratis. Il più grande nemico dell’editoria è il gratis, ovvero l’uso spregiudicato che il Web fa dei contenuti, spesso saccheggiati e diffusi senza riconoscere alcun tipo di copyright o di compenso per chi li ha prodotti. La vera transizione retributiva dovrebbe partire da un presupposto fondamentale, dunque: che nessuno può fare ricavi con contenuti prodotti da altri senza autorizzazioni e senza adeguati accordi economici. Ma anche dal presupposto che chi legge gratis una notizia deve sapere che è complice di uno sfruttamento. Perché diciamoci la verità: la favola che l’informazione possa reggere con la sola pubblicità è, appunto, una favola. Perché la pubblicità può essere solo un pezzo della sostenibilità di un’azienda editoriale. Il resto deve farlo il lettore, che deve imparare a pagare i servizi di cui usufruisce – così come paga per i servizi ottenuti da un idraulico, da un parrucchiere, da un elettricista.
Ostinarsi a voler assecondare la civiltà del gratis significa condannare l’editoria non soltanto a un precariato umiliante, ma anche all’incursione di chi usa i mezzi di comunicazione, sopratutto quelli del Web, per veicolare notizie tendenziose, fake news, contenuti acchiappa-clikc, o apertamente pubblicitari.
Una moderna ed evoluta società civile dovrebbe scegliere i giornali o i siti che più reputa adeguati per serietà e rigore ai propri bisogni informativi e culturali, e poi pagare adeguatamente per i servizi ricevuti. Questo metterebbe i giornali o i siti in una condizione di responsabilità contenutistica e sindacale. Ma se il mercato è di fatto una giungla selvaggia dove tutti fanno tutto e tutti saccheggiano tutti, con un livello di approssimazione davvero allucinante, a uscirne indebolito, ai limiti del tramortimento, è il sistema dell’informazione nel suo insieme.
Ultimo tema fondamentale è l’uso politico dell’informazione. Nel senso che troppi editori sono editori “impuri”, sopratutto in Italia, dove giornali o siti vengono spesso usati come strumenti di pressione. Se un editore è “puro”, al contrario, tende a fare profitti con il proprio lavoro, tutelando il copyright e facendo in modo di raggiungere, con adeguate politiche di marketing, il maggior numero possibile di lettori. Se un progetto editoriale è serio, rigoroso, calibrato, affidabile, è probabile che riesca a intercettare una domanda reale – fosse anche soltanto di una nicchia – e a determinare i presupposti basilari per un equilibrio di bilancio, e dunque anche per un equilibrio sindacale.
Ma se non si regolamenta al più presto questa giungla – superando con uno scatto di reni la subalternità verso i colossi del Web, principalmente statunitensi – è assai probabile che in futuro l’informazione diventerà necessariamente bene comune, e dunque soggetta a un processo di crescente statalizzazione (si veda a tal proposito la funzione sempre più salvifica, da scialuppa di salvataggio, del Servizio Pubblico). Ma un’informazione di Stato apre altri e più inquietanti scenari, perché un’informazione di Stato non potrà che essere un’informazione politicamente orientata.
Andrea Di Consoli