Il libro raccoglie cinquanta elzeviri che Tommaso Landolfi scrisse per il Corriere della sera. Elzeviri, ma sarebbe meglio definirli piccoli racconti, che esplorano in lungo e in largo - con disincanto, amarezza, ironia - il meglio ma soprattutto il peggio della condizione umana: quel peggio che in parte giunge inatteso, come una contrapartita inevitabile delle bellezze e dei piaceri della vita, e che in parte gli uomini si autoinfliggono, a causa di prospettive sbagliate, tra cui l’impeto di essere forzatamente civili e progrediti, perché così vuole la società moderna. O, paradossalmente, per l’obbligo di voler essere a tutti costi felici.
E in questa cornice che prendono forma sogni e allucinazioni notturne (Parole in agitazione, Un paniere di chiocciole, Il bacio), solitudini, inquietudini, nevrosi (Insonnie, Amici più e meno, I coniglietti, I cari frugoletti), dilemmi filosofici (Foglio volante, La canicola, Accoglienze oneste e liete), quasi amori e amori difficili o impossibili (Una donna, Cagna celeste, In partenza), addii (Morte di un amico).
Note di realismo magico che si insinuano nella vita di tutti i giorni, il surreale che prende possesso della realtà come in “La gloria” dove una ragazza rifiuta le effusioni in pubblico del fidanzato per paura di essere spiata e giudicata dal monumento che lì vicino celebra un uomo severo e importante.
Ma c’è anche in queste pagine una riflessione sulla scrittura, a partire dalla propria condizione di intellettuale, per scelta e per lavoro, come leggiamo in alcuni racconti che ci forniscono la chiave di lettura di questa produzione apparentemente minore di Landolfi.
Uno è “Italia letteraria”, parabola di una rivista che, per le magagne del suo direttore-editore, è costretta a chiudere, lasciando a spasso i suoi collaboratori. Un altro è “La penna”: la penna che si smarca dalla volontà di chi la usa, che si rifiuta, benchè caricata d’inchiostro, di scrivere o che scrive in modo pallido e s’il languidisce di fronte (forse) all’in sincerità del poeta, o alla sua mancanza d’ispirazione. Fino all’a mara conclusione: “Non che io sia un cattivo poeta; fossi anche buono, il risultato ultimo sarebbe lo stesso. E in conclusione, con o senza la mia Violante, nulla mi resta che cambiare mestiere … Non so: mio padre mi ha lasciato un po' di quattrini, la drogheria qui all’angolo è in vendita …” Un terzo, il più programmatico, è “A tavolino”, racconto che allude all’ attività di scrittore su commissione, per bisogno, in tempi contingentati, su un piccolo tavolo, dove non ci sta tutto quello che serve, un tavolo talmente stretto che limita anche le idee, e comprime la creatività.
Qui la scrittura è dissacrata, abbassata di rango, privata della sua aura solenne e ridotta al semplice mestiere, talvolta fatto controvoglia, di vivere, anzi di campare.
“Scrivere, eh scrivere! E perché, di grazia? E’ forse necessario scrivere, o quale confessore me lo ha dato di penitenza? Scrivere! A che o a chi serve? Beh (si aggiunse opportunamente), beh, occorre guadagnarsi il pane, d’ac cordo: pure, non potrei guadagnarmelo più onestamente e senza tanti travagli? … Uhm: e che altro so fare? Cioè, intendiamoci, non che io sappia scrivere; ma almeno, qualche volta, per i miei scritti mi danno quattrini … Ah, ad ogni modo lavoro più ingrato non mi potevo scegliere”.
Tommaso Landolfi, Un paniere di chiocciole, Adelphi, 2025, pp. 320, Euro 24.00