Martedì 18 febbraio 2025, ore 1:22

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Nei ricordi di oggi la tragedia di ottanta anni fa di un popolo mentre tutti, a gran voce, sperano che “non accada mai più”. Ma la parola Shoah, che in ebraico significa Catastrofe – in questo caso con la C maiuscola – ancora adesso evoca terrore. Sgomento. Che molti provarono il 27 gennaio 1945, quando un gruppo di militari della 60ª divisione sovietica, impegnati nell’offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono ad Auschwitz, nella Polonia del sud, a pochi chilometri da Cracovia, sfondando con un carro armato il cancello dell’ingresso principale, quel che restava di settemila anime in un lager. Persone stremate, ridotte a larve. Un orrore che in Europa probabilmente in tanti già avevano intuito o conoscevano ancor prima che il mondo, come sostenne lo storico americano Raul Hilberg, cominciasse a interrogarsi sul serio sulle tre componenti di quella tragedia: i carnefici, le vittime e gli spettatori. Dei primi due si sa ormai tutto o quasi, grazie al lavoro di generazioni di storici e degli istituti di ricerca. Degli spettatori e delle loro responsabilità nell’Olocausto, nell’eccidio di sei milioni di brevi si conosce, forse, un po’ meno. Tra la voglia dei sopravvissuti di lottare contro i negazionismi, i tentativi di distruggere prove e per l’affermazione della verità a partire principalmente dagli anni Settanta e Ottanta, quando col passare del tempo aumentò la consapevolezza di quanto era avvenuto. Tuttavia anche il nostro Paese non fu esente da colpe: il suo periodo razzista ha una data d’inizio precisa, il 14 luglio 1938, giorno in cui il “Giornale d’Italia” pubblicò, senza firme, il “Manifesto della razza”, documento ispirato e scritto da dieci “scienziati” antisemiti. Tutti personaggi, chi con ruoli maggiori o minori, operanti in ambito universitario. I nomi? Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco ed Edoardo Zavattari. Furono loro a preparare i dieci paragrafi della “Carta”, di cui uno esplicitamente dedicato alla questione ebraica con il titolo “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”, sottoscritti dal segretario nazionale del Partito fascista, Achille Starace, e dal ministro della Cultura popolare, Dino Alfieri. Leggi razziali che poi vennero abrogate durante il Regno del Sud coi regi decreti-legge n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944, mentre nella Repubblica sociale di Mussolini continuarono a essere in vigore fino alla Liberazione nel 1945. Una macchia profonda e incancellabile che pesa non soltanto sulla Germania, che aveva scientificamente pianificato lo sterminio del popolo ebraico, e sull’Italia, ma anche sull’intera Europa e su chi, da più lontano, non fece nulla per impedirla.

( 24 gennaio 2025 )

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