C’è qualcosa di più facile della critica sociale? Probabilmente no. Come tante altre pratiche, anche questa può essere fatta in modo diverso. Un conto è criticare l’esistente pensando di poterlo riscostruire daccapo: si tratta peraltro di una tendenza ben radicata nella storia politica e nella storia delle idee. Il compianto Luciano Pellicani, a tal proposito, parlava di mentalità gnostico-rivoluzionaria. Nei suoi innumerevoli volumi pubblicati da Rubbettino, possiamo ben tracciare l’identikit di chi vede nel mondo il tradimento inaccettabile del proprio ideale. Prendiamo forse il suo volume più bello, esemplificativo fin dal titolo: La società dei giusti. Parabola dello gnosticismo rivoluzionario. In esso si può trovare una storia dei «fanatici dell’Apocalisse», vedendo soprattutto nei giacobini un punto di riferimento ancora attuale per molti agitatori irresponsabili. Fautori del disegno rousseuiano, tale per cui la società ha corrotto l’uomo naturalmente buono, essi ritenevano di essere i missionari di un disegno radicale: la rigenerazione del mondo. In tal senso, la rivoluzione è vista come strumento di palingenesi sociale, come tappa per la creazione del Paradiso terrestre. Pensiamo a un autore come François-Noël Babeuf. Scorgendo nella società solo marciume privo di possibilità di essere riformato, egli scrisse, «ad essi non si può porre rimedio che con un sovvertimento totale! Tutto si confonda dunque! Tutto rientri nel caos e dal caos esca un mondo nuovo e rigenerato!». Poco importa che il fine, il Regno della Virtù, comporti mezzi violenti e ferini. In tale ottica, il fine giustifica i mezzi.
All’opposto, la realtà può essere vista come imperfezione, ma non per questo la si reputa un male da radere al suolo. In questo caso, e contrariamente a un’etica dei principi che rischia di tramutare l’azione in distruzione, Max Weber parlava di etica della responsabilità. Il mondo è imperfetto e, come tale, non può essere raddrizzato interamente. Sir Isaiah Berlin parlava a tal proposito di legno storto dell’umanità, dal quale nulla di interamente dritto può essere tratto. Secondo questo approccio, dunque, la critica può servire per migliorare l’esistente, ma senza strappi violenti, rivoluzionari e pantoclastici, bensì attraverso una prassi riformista. Il critico sociale responsabile, almeno tendenzialmente, segue la weberiana Verantwortungsethik, ma non è detto che non cada nella trappola rivoluzionaria. In un volume del 1988, appena ripubblicato dall’editore Il Mulino in occasione peraltro dei novant’anni del suo autore, Michael Walzer, si prova a fornire un profilo del critico sociale. L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico del Novecento ricostruisce la critica di alcuni importanti autori del Novecento – tra gli altri Julien Benda e Antonio Gramsci, George Orwell e Ignazio Silone, Albert Camus e Herbert Marcuse – provando però prima a indicare quali sono i prerequisiti di una buona critica sociale.
Per il teorico politico americano, un buon critico non può vedere la società in modo imparziale e distaccato. Egli è parte del mondo e, in quanto tale, deve sentire su di sé la responsabilità di metterne in discussione le criticità. In tal senso, Walzer è scettico di ciò che pensava Benda: la distanza dell’intellettuale deve essere minima. Piuttosto, egli deve manifestare il coraggio morale di schierarsi, di prendere parte attiva alla vita politica. Ne consegue, o lo procede, se si preferisce, uno spirito compassionevole: le ingiustizie e le iniquità non possono essere lasciate correre come se nulla fosse. Sono i più deboli, coloro che sono senza voce, a essere rappresentati dal critico della società: senza compassione non ci può essere una critica degna di questo nome. Infine, scrive Walzer, serve un “buon occhio”, ovvero una certa prontezza nel comprendere ciò che non va, frutto dell’esperienza diretta. Walzer parla anche della necessità di non perdere l’umiltà del proprio punto di vista, che rimane sempre parziale. La lista dei critici passati in rassegna dall’Autore, in realtà, è piuttosto eterogenea e lascia qualche perplessità.
Benda, Silone e Orwell, per esempio, hanno fornito esempi certamente utili di critica. L’ultimo, in particolare, pur avendo una certa predilezione per il socialismo, non ne sottaceva i pericoli. Infatti, a lui si debbono alcune delle critiche più importanti al dispotismo totalitario comunista: una rivoluzione per il popolo tramutatasi – o forse diretta conseguenza della sua premessa – in oppressione dei pochi sui molti. Orwell è stato dunque davvero responsabile e onesto intellettualmente. Il che non si può certo dire, ad esempio, di Marcuse, il quale, pur essendo docente negli Stati Uniti, e cioè nel mondo che criticava – ma Pellicani sulle contraddizioni degli intellettuali come classe ha già detto tutto – ne voleva distrutte le fondamenta: la strategia del “Grande Rifiuto” altro non è che il sempreverde motivo giacobino di distruzione violenta dell’esistente.