Venerdì 14 novembre 2025, ore 21:45

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Prima ancora dell’impegno politico, cui ha dedicato la seconda metà della sua vita, la passione di Noam Chmosky, grande vecchio della filosofia, è stata la riflessione sul linguaggio, sul suo funzionamento e sulla sua origine.

Ma nella prospettiva di Chomsky la politica non è certo secondaria o subalterna alla scienza del linguaggio, se è vero che il linguaggio non è solo funzione, competenza, abilità, ma anche comunicazione, creatività, discorso, azione, consapevolezza del proprio stare al mondo. Questo è il filo, uno dei tanti e nemmeno troppo sottile, che lega due interessi che a prima vista potrebbero sembrare distanti.

Proprio da qui, dalla sua concezione del linguaggio bisogna partire per tracciare un ritratto a tutto tondo di un pensatore la cui riflessione, soprattutto negli ultimi decenni, è stata assorbita da importanti battaglie civili che hanno fatto di lui il simbolo del dissenso contro “la fabbrica del consenso”.

Questo è il titolo di un famoso pamphlet con il quale Chomsky denunciò, in tempi in cui erano in pochissimi a farlo, le fake molto prima delle fake, il sistema della propaganda, del pensiero unico, del potere mediatico. Anche in quel pamphlet si analizzava il tema della comunicazione nei termini di un linguaggio persuasivo e subdolo finalizzato alla manipolazione delle coscienze e alla distorsione della verità.

Chomsky ha presentato e difeso in molti libri, e a più riprese, la sua teoria del linguaggio ispirata a nucleo duro innatista e cognitivista che relativizza i fattori ambientali proprio mentre enfatizza le strutture naturali, quella specie di telaio linguistico di base da cui dipende l’apprendimento.

A chi lo ha criticato sostenendo che l’innatismo è un nemico giurato dell’egualitarismo, e che lui, egualitarista convinto, dunque si contraddice, ha risposto che al di fuori di una razionalità originaria, in possesso di tutti gli individui, capace di orientare e controllare gli stimoli esterni, non resta che una mente vuota influenzabile all’infinito, cioè una mente inevitabilmente disposta al controllo totalitario.

Senza entrare nello specifico della grammatica generativa (il cui nome è già un programma filosofico) vediamo come lo stesso filosofo l’ha definita in uno dei suoi lavori più accessibili e riassuntivi (Linguaggio e problemi della conoscenza,1988, il Mulino, 1991): “C’era bisogno di principi generali, invarianti rispetto alle varie lingue, che determinassero come funziona un particolare sistema di regole […] La grammatica generativa si basa sull’assunto che non esiste alcuna regola che si riferisca ad una lingua particolare o ad una costruzione particolare. Al contrario, esistono principi universali che costituiscono parte della facoltà di linguaggio umana determinata dal nostro patrimonio genetico. Questi principi permettono un certo grado di variazione parametrica limitato, pare, al sottinsieme degli elementi lessicali, ad alcune proprietà generali del lessico e ad alcune possibilità di scelta sul modo in cui il sistema invariante di computazione che sta alla base di tutte le lingue interagisce con il sistema di segnali empiricamente evidenti”.

Il che significa che alcune differenze linguistiche sono possibili ma dentro una cornice determinata apriori da un programma originario e universale.

E’ singolare, ma anche emblematico della compresenza dei due interessi, che un libro decisamente teorico come “Linguaggio e problemi della conoscenza” si apra con l’illustrazione dello scenario politico dell’America Latina nel quale gli Usa, sostenuti “in modo sostanzialmente unanime dai mezzi di comunicazione di massa e dalla classe intellettuale” imponevano nel disprezzo del diritto internazionale il proprio ordine strategico fatto di “profitti che scorrono”.

Erano gli anni della lotta dei contras, sovvenzionati e armati dalla Cia contro il governo del Nicaragua. Pur affrontando questioni di filosofia del linguaggio, Chomsky non riusciva a staccare lo sguardo dall’impegno partigiano contro i privilegi dell’Occidente.

Lunga è la lista di petizioni, prese di posizione, denunce, battaglie ingaggiate da Chomsky contro lo strapotere dei massmedia, gli interessi delle multinazionali e dei poteri oligarchici, gli effetti iniqui della globalizzazione, il silenzio o l’assenso delle élites. Dal sostegno dato ai movimenti di decolonizzazione, nella seconda metà del Novecento, alla critica della guerra in Iraq motivata con la leggenda delle armi chimiche in possesso di Saddam, dallo scoperchiamento dei crimini americani in Vietnam alla denuncia della “criminale aggressione” della Russia in Ucraina, Chomsky c’è sempre stato con il suo linguaggio incisivo, antagonistico, resistente e dalla parte degli oppressi.

Una recente biografia filosofica (Giorgio Graffi, “Noam Chomsky. Un intellettuale tra linguistica e politica”, Carocci, 2025) analizza una per una le nobili cause sostenute dal filosofo nel corso della sua vita tracciando un bilancio complessivo non solo del linguista ma anche del militante e dell’attivista.

Proprio Graffi insiste sull’esistenza di un motivo comune, pur in assenza di un legame stretto, “tra le idee linguistiche e le idee politiche di Chomsky”: la razionalità degli esseri umani.

Infatti dalla convinzione che “la ragione è l’unica cosa” posseduta da tutti gli uomini segue che un individuo razionale, “se sufficientemente informato”, è in grado di esercitare un pensiero critico e di prendere nelle mani il proprio destino. Dunque una concezione della natura umana fondamentalmente orientata alla libertà proprio grazie all’esercizio di strumenti logici, riflessivi e linguistici dati dalla natura.

Ne risulta il profilo di un intellettuale forte, anarchico e non violento, antimarxista e antimperialista, che il più delle volte, al netto di qualche errore di valutazione ascrivibile alla genuinità della sua passione civile, coglie nel segno, si schiera dalla parte giusta, analizza con obiettività torti e ragioni delle forze in campo, mettendo sempre il polemos linguistico al servizio della proposta e della costruzione.

Un passaggio particolarmente delicato è quello che Graffi dedica alle posizioni di Chomsky rispetto al conflitto mediorientale: posizioni di condanna della violenza da qualsiasi parte venga, riconoscimento dello Stato d’Israele e soluzione della questione palestinese rispettosa dei diritti di un popolo senza terra.

Questo era, fino al momento in cui ha potuto parlare, il punto di vista di Chomsky che nel corso degli anni non ha tuttavia esitato a condannare tanto il terrorismo di Hamas quanto le violente campagne di Israele e le interferenze statunitensi.

Sarebbe stato interessante conoscere il suo parere sugli ultimi due anni, magari proprio a partire da quel tremendo 7 ottobre del 2023, ma il precipitare delle sue condizioni di salute nel giugno dello stesso anno gli ha impedito qualsiasi esternazione pubblica. Probabilmente sarebbe stato accusato di antisemitismo come gli era successo in passato quando aveva messo a nudo l’iniquità “della prigione a cielo aperto” in cui erano costretti a vivere i palestinesi o quando nel 1979 aveva difeso in nome del diritto di parola lo scrittore francese Robert Faurisson accusato di negazionismo per alcune sue improvvide uscite. Questo, forse, l’unico scivolone del filosofo, peraltro pagato pesantemente e in prima persona.

L’accusa di antisemitismo è tuttavia paradossale perché non tiene conto del fatto Chomsky è figlio di immigrati: è nato a Filadelfia nel 1928 da una famiglia di origini ebraiche proveniente dall’Europa dell’Est.

Inoltre, come scrive Graffi sulla base di una ampia analisi di documenti, “Chomsky, oltre a non essere antisemita, non è neppure antisionista: non ha mai contestato il diritto di Israele a esistere, né tantomeno quello degli ebrei di tornare in Palestina”.

( 14 novembre 2025 )

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