Giovedì 18 aprile 2024, ore 23:11

Addio a Gianni Minà: a Conquiste del Lavoro l'ultima intervista inedita

"Ho sposato la mia professione"

Gianni Minà, giornalista, scrittore, conduttore televisivo. Ha ideato e realizzato programmi storici del servizio pubblico (Blitz, Zona Cesarini), reportage e film documentari sulle personalità più amate e complesse del Novecento. Nel 2007 riceve il Premio Kamera della Berlinale alla carriera, il più prestigioso riconoscimento tributabile ad un documentarista. Dal 2000 al 2015 ha versato molto del suo amore per il Continente di Simón Bolívar nella rivista letteraria Latinoamerica e tutti i sud del mondo

Dottor Minà, abbiamo visto alcune puntate di Blitz, programma epocale del servizio pubblico, in cui si respirava aria di casa, di famiglia, “di amicizia”. Nel Fedone si legge “Platone è mio amico, ma mi è più amica la verità”. Si può essere “amici della verità” e di Platone?

Certamente. Perché prima bisogna essere leali con chi ti sta di fronte. L’intervista non è un duello, ma un incontro tra persone.

Maradona, Alì, Marquez, Castro, cos’avevano in comune, a parte il fatto d’essere suoi amici?

Ho sempre amato le persone “fuori dal coro” perché bisogna avere una certa dose di coraggio per pensare in maniera non banale, alzare la mano e dire: “Io non sono d’accordo”. Il silenzio è complicità e le persone che Lei ha citato hanno pagato tutte un prezzo, più o meno alto. Quanto meno lo considero un dovere raccontarle. Riguardo l’amicizia, sono sempre stato fedele ai miei amici di infanzia, del quartiere la Crocetta di Torino. Ci sentiamo spesso, non ci siamo mai lasciati.

Ma i suoi amici sono stati spesso considerati “indifendibili”, eppure Lei li ha sempre difesi, anzi se n’è sempre detto amico … Ma, da amico, li ha mai sgridati per qualcosa, con la bonomia che la contraddistingue?

Maradona, Castro li hanno voluti raccontare in un certo modo. Non si scordi che noi viviamo in un mondo fatto di media, strumenti da sempre in mano ai potentati. Cuba da quando Fidel Castro ha vinto con la sua Rivoluzione ha proposto (e non imposto) un sistema diverso dal nostro che regge, nel bene e nel male, ancora oggi. Lei pensa che se fosse stata una terribile dittatura, le persone avrebbero resistito ancora, nonostante siano passati 60 anni e nonostante subiscano un blocco economico che il “democratico” Trump ha aggravato ancor di più durante la pandemia con più di 240 restrizioni?

Chi classifica Cuba come una dittatura sta commettendo un errore d’inventario, secondo Lei?

E se fosse una tremenda dittatura avrebbe approvato tramite un referendum, a settembre scorso, un nuovo codice della famiglia dove lo Stato cubano riconosce il nucleo familiare come cellula fondamentale della società basata su relazioni di affetto che si creano tra parenti, indipendentemente dalla natura della parentela? Le relazioni, secondo il loro Codice, si basano sul rispetto, la dignità e l’umanità come valori supremi e sono regolate da principi come l’uguaglianza, la non discriminazione, e la ricerca della felicità.

Perché Lei è così convinto che sia il giornalismo ad aver creato una versione abominevole di certi personaggi e di certe aree del Mondo?

Oggi non esistono più le aggressioni in senso tradizionale del termine; oggi ci sono altre tecniche che hanno ridefinito i codici e le pratiche della guerra: informazione e media per irridere o screditare chi la pensa in maniera dissonante; alcune organizzazioni non governative per portare avanti determinati lavori di propaganda; le piattaforme digitali e i social media poi, che dal 2011 (con la cosiddetta “primavera araba”) hanno ridefinito il posizionamento delle Nazioni rispetto alla percezione dell’opinione pubblica.

E questo, nella fattispecie di Cuba, che cosa ha prodotto?

Questa pratica applicata da sempre a Cuba, questa “cattiva reputazione” costruita ad hoc nel tempo, ha aiutato a sagomare la percezione dell’opinione pubblica internazionale senza ricorrere alla violenza. Ed è difficile da cambiare. Io non mi sono mai adeguato a questo nuovo esercizio della professione. E’ facile contrastarlo, basta andare alla fonte delle notizie, ma ora il tempo, la fretta, nega questo importante lavoro di controllo. Così il giornalista, da “cane da guardia” della democrazia è diventato altro.

Lei è stato davvero intermediario dello storico incontro tra Fidel Castro e Papa Francesco o anche quella è un’esagerazione giornalistica?

No, non sono stato un intermediario tra il Papa e Fidel Castro. L’incontro è avvenuto perché Papa Francesco è un papa argentino che ha sostenuto una pastorale di contatto con il popolo, di lavoro comunitario, ma è anche un Papa aperto a un'altra maniera di sentire e di pensare la fede. Ha rotto con le tradizioni, con il costume, creando un proprio stile nell’essere Papa, più vicino al popolo, con un ascolto attento della gente. A Cuba ha semplicemente seguito il solco aperto da Papa Giovanni Paolo II e percorso anche da Ratzinger, Benedetto XVI: “Cuba si apra al mondo, il mondo si apra a Cuba”.

Con Castro Lei aveva un altro amico in comune, Maradona. Anche quest’ultimo ha sempre difeso Cuba e, come Cuba, ha suscitato sentimenti ambivalenti. Perché?

Diego è stato figlio del suo tempo, ma soprattutto della sua terra amara. Rappresentava, a volte, con violenza la sua condizione, che a prescindere dai soldi, gli era appiccicata addosso come una seconda pelle. E quando provavano a strappargliela, reagiva con dolore e con fastidio.

E Lei, invece, di chi è figlio?

Io sono figlio di una madre, Francesca detta Checchina, maestra di scuola, a sua volta figlia di due genitori messinesi, la maestra Isabella e l’avvocato Giovanni Impallomeni, morto sotto le macerie del terremoto dei primi anni del Novecento. Mio padre, avvocato per le Assicurazioni Generali, era nato a Torino da Cesira, di Alba, e da Vincenzo, capostazione palermitano che lo Stato aveva trasferito al Nord per facilitare l’unione tra le diverse popolazioni, ma morì sotto il bombardamento della seconda guerra mondiale.

Lei ha detto che “il mondo visto da sud è diverso”. Da sud, come vede il nostro Paese, la sua politica, la sua società, la sua televisione?

Noi siamo diventati un grande paradosso: da sempre, nella narrazione, solo il sistema capitalistico e in particolare l’Occidente è luogo di libertà ed emancipazione. Nella pratica, però, vediamo quotidianamente come questo sistema sia solo portatore di condizioni di lavoro insopportabili senza rispetto per i lavoratori, una ormai cronica instabilità economica e politica, un prezzo ambientale che non possiamo più permetterci e poi violenza e guerre. Nemmeno quei pochi diritti civili guadagnati con le lotte degli anni passati vengono tutelati, sempre sotto attacco.

Lei ha qualche speranza?

Come dice il mio amico sociologo, Giuseppe De Marzo, nel nostro Paese esiste già una “geografia della speranza”. A farla sono: “quelle società in movimento, più che i movimenti, che hanno introiettato la necessità di difendere i beni comuni e di affermare in maniera più ampia la democrazia Sono movimenti che parlano all’umanità a partire dal particolare. Io penso sia molto importante parlarne.

Delle tantissime persone che ha intervistato, c’è qualcuno con cui non è proprio riuscito ad entrare in sintonia?

Una volta, proprio con Gabriel García Márquez. Per i primi interminabili 15 minuti era ostile e non rispondeva alle mie risposte, sosteneva che non avessi letto il suo libro, “Dodici racconti raminghi”. Poi la mia caparbietà ha avuto la meglio. Poi capì e mi concesse un’intervista magnifica, che venne pubblicata dal Corriere.

Lei, proprio a Cuba, ha conosciuto un’altra figura complessa della storia comunista, Michail Gorbachev. Che cosa ha raccolto da questa conoscenza?

Dovrei dare una risposta troppo lunga. L’ho conosciuto, proprio a Cuba, subito dopo le sue dimissioni da presidente dell'Unione Sovietica nel 1991. Intervistai Fidel Castro proprio per capire le conseguenze economiche e il futuro dell’Isola subito dopo quell’atto politico. E poi scrissi un libro su questa seconda intervista. Ritrovai anni dopo l’ex presidente sovietico da Maurizio Costanzo che, nel suo programma, invitò Gorbaciov con la moglie, lo scrittore cileno Sepúlveda e il sottoscritto.

Una volta chiese a Muhammad Alì: “Se rinascesse, per guadagnarsi il suo posto nella società, sceglierebbe ancora il suo lavoro o cercherebbe un altro modo per vivere?”. Lei cosa avrebbe risposto al suo posto?

Io non ho scelto di fare giornalista, io, come dice mia moglie, ho sposato la mia professione. Non saprei proprio cosa potrei fare se non questo mestiere.

Eppure ha detto che il giornalismo oggi ha subito “un’involuzione clamorosa” … Lo rifarebbe?

Il mio giornalismo ovviamente è lontano anni luce da questo di oggi, ma lo era anche dalle generazioni precedenti la mia. Se dobbiamo soffermarci sul giornalismo ora, vediamo che si è trasformato e ha un potere sempre maggiore nella politica internazionale. Oggi il ruolo dei media mainstream è molteplice: documenta i conflitti in tempo reale, ma nello stesso tempo mostra realtà parziali; è un canale per le negoziazioni e attività diplomatiche, ma nello stesso tempo serve per far pressioni sulle popolazioni di un Paese avversario. Ma è un discorso troppo lungo e complicato per riassumerlo in poche righe.

Roberto Rosano

( 28 marzo 2023 )

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