La sigaretta, il sorriso, la legalità, l’esplosione, il coro di allarmi che vorrebbero non smettere mai e trasformarsi in un canto funebre di dolore, indignazione e sconcerto. E il normale assieparsi di veicoli parcheggiati che diventa una discarica di carrozzerie carbonizzate o fuse. E poi la mano misteriosa che afferra una borsa e la sottrae agli inquirenti. E fra le carte un’agenda rossa che mai più riapparirà. E l’intervista sconcertante in cui la figura della Grande Vittima rilascia dichiarazioni inquietanti, che dovrebbero scardinare le istituzioni e invece vengono semplicemente acquisite nel “repertorio” mediatico di commemorazioni che non dissolvono le nebbie fitte dei depistaggi. E infine l’elevazione all’iconografia delle fiction, che diluiscono la verità nella sdolcinatezza della recitazione di maniera, che non ha più neanche la dignità dell’antica italiana che un tempo faceva grande la qualità attoriale della penisola. E ancora, la profanazione delle targhe, dei cippi, delle reliquie che dovrebbero servire da omaggio ma anche da monito. E il dibattito infinito che diventa cicaleccio, la lotta per accaparrarsi la Figura nell’ambito della propria parte politica, cioè ideologica, cioè elettoralmente mercificata. E la trenodia dissonante dei pentiti, veri e falsi, che trasformano il percorso indiziario in un labirinto ingannevole e alla fine un mosaico disfatto. E l’immagine limpida di una giovane donna dal nome incendiario che pone determinata le domande alle quali nessuno risponde. E lo sfondo immanente di un’isola dove “tutto cambia perché tutto rimanga com’è”. Scenografie assolate alla Camilleri dove le ombre sono ancora più tenebrose per il contrasto con la luce accecante. E un’umanità forense che sempre di più ha le movenze narrate da Leonardo Sciascia in Il contesto («Quando l’ho finito, non mi divertivo più.»). E le analisi, le testimonianze, la solidarietà di chi ha avuto altri lutti ugualmente non emendati dalla giustizia. E tanta, tanta, tantissima voglia di urlare quel nome, Paolo Borsellino, in faccia ai colpevoli, per stamparlo nelle loro coscienze di pietra con un fuoco diverso da quello divampato in via D’Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992, un fuoco che si chiama giustizia.
Enzo Verrengia