Presidente, alcuni giorni fa ha lanciato l’allarme sulla possibile riforma pensionistica con il rischio fuga infermieri e tenuta Ssn. Fuga dovuta anche agli stipendi da favola offerti dall’Arabia Saudita.
Il taglio eventuale alle pensioni è aggravato dalla situazione retributiva in cui oggi si trovano gli infermieri che percepiscono stipendi tra i più bassi dei paesi dell’OCSE e dell’UE. Non si va oltre una media di 1600-1700 euro mensili, che si traducono in una pensione di circa 1400 euro mensili. Se si applicasse la riforma nella prima bozza della legge di bilancio la pensione calerebbe a circa 1100 euro mensili, somma improponibile a chi ha lavorato una vita. Altra conseguenza dell’attuale inquadramento degli infermieri del Ssn è non avere sbocchi di carriera, crescita professionale e retributiva, per questo si entra nel servizio pubblico e si esce praticamente allo stesso livello (tranne l’anzianità). Chi ha la possibilità di andare in pensione secondo le regole attuali, senza tagli, anticiperà la sua uscita dal servizio. Sull’Arabia Saudita, è una delle tante nazioni che richiedono infermieri italiani, valutati tra i migliori per formazione e capacità professionali. L’Arabia offre retribuzioni elevate che superano spesso quelle offerte da Paesi come la Svizzera dove lo stipendio di un infermiere italiano raggiunge anche i 5.000 euro mensili. Secondo le prime stime sarebbero circa 500 gli infermieri che hanno scelto i paesi arabi come luogo di lavoro, ma già da anni circa 3.000-3.500 infermieri all’anno abbandonano l’Italia scegliendo molti paesi Ue dove le retribuzioni superano quelle italiane anche del 40 per cento.
Un quadro epidemiologico caratterizzato da una popolazione anziana sempre più bisognosa di assistenza domiciliare e di infermieri sul territorio.
L’ invecchiamento della popolazione, l’aumento dell’età media e aspettativa di vita, ha fatto aumentare patologie croniche e degenerative, accrescendo la domanda di cura e di assistenza. L’Italia, impiega meno infermieri rispetto a quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale e il loro numero in rapporto alla popolazione è inferiore del 25% alla media UE. Nella domiciliarità e prossimità la figura chiave indicata anche dal DM 77/2022 di riordino dell’assistenza territoriale è l’infermiere di famiglia e comunità. Oggi lo standard ne prevederebbe uno ogni 3000 abitanti, quindi circa 20.000, la Corte dei conti nel 2021 ne ha indicati in servizio 1.800, stime ufficiali non ne danno effettivi oltre 3.000. Un’assistenza territoriale difficile da realizzare, ancor di più nelle aree interne: circa 4mila comuni a forte rischio spopolamento. L’infermiere di famiglia e comunità ha un ruolo centrale, come professionista e come modello culturale. L’assistenza territoriale, finora si è evoluta con le previsioni contenute nei Contratti istituzionali di sviluppo, sottoscritti tra Regioni e ministero della Salute in cui il numero di strutture risulta ancora più alto rispetto a quelle finanziate. Ma ora l’evoluzione è in stallo e la vera sfida è proprio quella di andare oltre le strutture e garantire che i professionisti, i processi e i modelli organizzativi siano modificati per non ricalcare l’esistente.
Dal 2029 in poi si avrà un’uscita programma di circa 100 mila infermieri, con circa 13/14 mila pensionamenti all’anno a fronte di circa 11/12 mila ingressi.
Lasciando da parte le eventuali novità negative che la legge di Bilancio 2024 potrebbe contenere, sulla carenza incide anche il numero di pensionamenti diciamo così “naturali”, attualmente circa novemila l’anno, numero che nei prossimi anni tenderà quasi a raddoppiare per l’età crescente della popolazione infermieristica legata a blocchi del turn over e mancanza di assunzioni nel SSN. Nel 2009, il picco massimo di infermieri, secondo i dati FNOPI, era nella fascia di età 35-39 anni, mentre nel 2022 il mix tra scarsa attrattività e blocchi delle assunzioni hanno portato il picco nella fascia di età 50- 54 anni e che farà sentire i suoi effetti massimi a partire dal 2029, quando i pensionamenti raggiungeranno, appunto, le 100mila unità. Una carenza rispetto alla quale l’unica soluzione possibile sarebbe quella di un cambio di rotta sia nelle assunzioni (per un ricambio generazionale sufficiente) che nella disponibilità di posti per nuovi infermieri laureati, in cestente aumento, è vero, ma ancora non sufficienti a coprire il fabbisogno reale. Senza un intervento per far fronte a queta situazione la professione infermieristica rischia davvero di scomparire.
Un calo di oltre il 10% ai corsi di lauree delle professioni sanitarie evidenziano un crescente problema di attrattività.
È questo il reale problema dei corsi universitari: l’attrattività. Basse retribuzioni, scarse possibilità di carriera e riconoscimento professionale, poca autonomia professionale nonostante le norme la prevedano, anche a livello internazionale, non attraggono i giovani a scegliere la professione infermieristica. Quest’anno accademico, si è registrato un calo del 10% delle richieste di ammissione ai corsi di laurea infermieristica che si tradurrà in una percentuale ancora più grave quando si arriverà all’immatricolazione, perché gli attuali meccanismi di selezione di test di immatricolazione, ma anche di gestione dei corsi di laurea, con un migliore supporto economico per i nostri professori, tutor, ricercatori, per le aziende sanitarie. Non è del tutto vero che la professione infermieristica non sia attrattiva. Lo è, ma quello che non è attrattivo sono le modalità organizzative di lavoro di interconnessione con altre professioni oltre quelle economiche e contrattuali. I giovani, hanno necessità di studiare vicino i luoghi di vita della famiglia con un costo oggettivamente diverso. Bisogna lavorare su una formazione e condivisione delle famiglie professionali, non è pensabile che i profili professionali si formino ognuno per conto proprio e poi possano essere in grado di lavorare insieme, coesi sul processo di cura, di assistenza, di presa in carico. Ognuno mette a disposizione la propria disciplina sapendo qual è il contributo dell’altro.
Recentemente, ha parlato di fragilità digitale, riferendosi al rischio per 14 milioni di malati cronici gravi, nelle aree interne, dove l’offerta sanitaria è spesso complicata.
Per garantire l’assistenza di prossimità e la continuità ospedale-territorio, deve entrare in gioco anche il reale sviluppo della sanità digitale. I servizi di telenursing, monitoraggio da remoto, tele-triage, consultazione ed educazione a distanza, che consentirebbero all’infermiere di riempire determinati gap assistenziali, garantendo il raggiungimento degli outcome di salute, anche prevenendo riammissioni improprie in ospedale. Come FNOPI abbiamo elaborato un documento sulla sanità digitale che definisce “ultimo miglio” il luogo di prossimità che ha inizio dal domicilio della persona assistita (“la casa come primo luogo di cura”) e si sviluppa attorno a esso con servizi in forma diretta per i cittadini, facilmente accessibili e con il minor impatto sulla loro organizzazione di vita, determinando il criterio guida nelle scelte di investimento, organizzative e tecnologiche di sanità digitale. È necessario sviluppare un modello organizzativo che preveda la partecipazione attiva della persona assistita e della sua rete privata, in una logica di co-progettazione, perché la sua partecipazione e quella del caregiver al processo di cura è elemento centrale: la consapevolezza è un’opportunità, influisce sugli esiti di cura e migliora anche la sua percezione del servizio ricevuto. La Sanità Digitale è un’occasione per la tutela della salute nel Paese, alla quale le professioni infermieristiche possono dare un importante contributo. Il successo passa attraverso lo sviluppo delle competenze relazionali digitali, con la partecipazione della persona assistita e del caregiver, come elemento centrale del processo di cura, con una migliore percezione del servizio ricevuto.
Giovanni Ianni
(Foto di amirreza jamshidbeigi su Unsplash)