Giorgio Napolitano, nato a Napoli il 29 giugno 1925, ha attraversato la storia dell’Italia repubblicana che oggi possiamo leggere attraverso la sua biografia.
Pur provenendo da una famiglia borghese, già a vent’anni si iscrive al Pci e ben presto diventa funzionario di partito, con importanti incarichi interni (da segretario della Federazione di Caserta a membro del Comitato centrale e della Direzione, a responsabile della politica economica).
Nel 1953 con l’elezione a deputato inizia la sua carriera parlamentare fino ad arrivare a presiedere il gruppo dei deputati del suo partito, poi Presidente della Camera, parlamentare europeo (con incarico di presidente della Commissione affari costituzionali), Ministro degli interni nel governo Prodi; infine fu nominato senatore a vita da Carlo Azeglio Ciampi. Grazie allo stretto dialogo e all’amicizia con Altiero Spinelli approfondì le tematiche federaliste europee.
Fu eletto Presidente della Repubblica il 10 maggio 2006 e alla scadenza del settennato, su ripetute pressioni dei diversi gruppi politici, che non riuscivano a trovare l’intesa per la successione, venne rieletto per il secondo mandato e dopo due nuovi anni, rassegnò le dimissioni.
Da Presidente della Camera, nel biennio 1992-1994, dovette affrontare il periodo più buio e triste della storia, quello di “tangentopoli”, quando gli avvisi di garanzia emessi dai giudici di “Mani puliti” arrivavano a centinaia nella sua scrivania (esattamente 619, perché decine di deputati ricevevano più domande per diverse ipotesi di reato) con la richiesta di autorizzazione a procedere. In quel periodo l’azione moralizzatrice della magistratura era sorretta da un larghissimo consenso dell’opinione pubblica e soprattutto amplificata da una martellante campagna di stampa, che prese il nome di “giustizialismo”.
Un altro momento drammatico, che Napolitano visse nelle vesti di Presidente della Repubblica, fu nell’estate del 2011 quando lo spread (cioè il differenziale di rendimento tra i Btp, titoli di stato italiani e i Bund tedeschi) salì alle stelle col pericolo di una drastica caduta dell’economia, che costrinse Berlusconi alle dimissioni. Il Cavaliere se ne risentì e lo considerò un complotto contro di lui, orchestrato d’accordo con le autorità europee. Napolitano in un primo tempo nominò senatore a vita Mario Monti e poi gli diede l’incarico di formare un nuovo governo tecnico. Interessante, e ricco di conseguenze politiche, il confronto dei primi anni ’80 con Enrico Berlinguer, che, secondo il metodo del centralismo democratico non poteva essere mai criticato. Giorgio Napolitano invece lo fa pubblicamente; successe subito dopo l’intervista di Eugenio Scalfari al segretario, centrata sulla “questione morale” che riguardava tutti i partiti e il sistema politico nel suo complesso, mentre il Pci era ritenuto geneticamente diverso.
I problematici rapporti di Berlinguer col movimento sindacale stanno ad indicare un irrigidimento ideologico, che porterà a limitare, tramite la componente comunista della Cgil, l’azione della Federazione unitaria, fino a proclamare il referendum popolare su una questione tipicamente sindacale qual era la struttura del salario esemplificata nel decreto sulla scala mobile. Il Pci perse il referendum. Napolitano cercò in ogni modo di contrastare questa deriva. Purtroppo lo scioglimento del Pci, la scomparsa del Psi e della Dc, non hanno portato, neanche dopo il crollo del muro di Berlino, ad una seria e conseguente riflessione critica sulle ideologie che stavano alla base dell’azione di questi partiti. Tra le eccezioni positive vi è l’autobiografia scritta da Napolitano nel 2005, un testo che ci fa capire meglio la straordinaria esperienza storica dei comunisti italiani.
Salvatore Vento