Giovedì 18 aprile 2024, ore 12:45

Anniversari

Gli ultimi cinque minuti di Dostoevskij

di ENZO VERRENGIA

Si celebra il bicentenario della nascita di Fëdor Dostoevskij nell’epoca dell’immondizia digitale che segnala ripetutamente i “dieci anni senza…” qualche rockstar morta di droga, mediocri star cinematografiche stroncate da analoghi eccessi e VIP dell’effimero. A lui, diversamente che per altri autori russi dell’Ottocento, non si può conferire soltanto la maestosità di titano della letteratura. Dostoevskij è uno stato a più dimensioni della narrativa. Attraversarlo comporta discendere nelle profondità del sottosuolo, confrontarsi con i demoni del terrorismo come strumento politico, provare per empatia l’inferno della ludopatia, vivere il legame fraterno come una catena di affetto, odio e formazione condivisa, vegliare nelle notti bianche con il sostegno adrenalinico dell’a more, eccetera, eccetera, eccetera.

Si prenda il suo romanzo più emblematico, “Delitto e castigo”. La traduzione italiana canonica del titolo è imprecisa. Alla lettera sarebbe “Il delitto e la pena”, che riassume con maggiore efficacia il corso e la giustapposizione degli eventi assemblati nel capolavoro di Dostoevskij.

Qui si concentra una tale densità di sollecitazioni da far accantonare la presenza di un autore-demiurgo che costruisce la vicenda e la sottopone al giudizio dei lettori.

Raskòl’nikov e il giudice Porfiri Petrovic divengono inesorabilmente due forze astratte in competizione fra di loro per moto autonomo. Prescindono da Dostoevskij, malgrado sia stato lui a concepirle. Il monologo di Raskòl’nikov sul diritto all’a moralità degli spiriti superiori è un delirio dialettico configurabile alla stregua di una ripresa al rallentatore del fungo atomico quale usava negli anni ’60, quando nei cinenotiziari e poi alla televisione si mostravano le orribili meraviglie di “brave new world”, il mondo nuovo. Le parole dell’assassino autoreferenziale di una megera strozzina che non suscita pietà quanto repulsione trascendono ogni intenzione e necessità di trama per dilagare nell’intimo di chi le ascolta da questo lato della pagina e se le immagina, appunto, equivalenti in parole del fuoco nucleare.

Lo stesso vale per la requisitoria di Porfiri Petrovic, che prima di avvenire nell’aula, si snoda dinanzi al colpevole stesso. Il meccanismo deduttivo di Sherlock Holmes, nel metodo del magistrato russo, acquisisce le parvenze di un’epifania etica. Petrovic smaschera Raskòl’nikov sulla base delle presunzioni anarchiche vantate direttamente dal giovane. Il quale tornerà in diverse sfaccettature di Pëtr Stepanovic, l’agitatore de “I demoni”, e del suo succube, Šatov. Anche per loro due si pongono le stesse finalità distruttive di Raskòl’nikov, che Dostoevskij organizza nella struttura della tragedia greca,

dove contavano le regole dell’ine sorabile e non l’ispirazione del drammaturgo.

Il “castigo” del titolo letterale è ben espresso in questo passaggio del libro: «Dove mai ho letto che un condannato a morte, un’ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi – avendo intorno a sé dei precipizi, l'oceano, la tenebra eterna, un’eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d'anni, l'eternità, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere!

Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Quale verità!

Dio, che verità! È un vigliacco l’uomo!... Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.» In “Diario di uno scrittore” fu più circostanziato: «Giungeremo a poco a poco alla conclusione che i delitti non esistono affatto, e di tutto ha colpa l’ambiente. Giungeremo, seguendo il filo del ragionamento, a considerare il delitto persino come un dovere, come una nobile protesta contro l’ambiente… insomma …la dottrina dell’ambiente porta l'uomo a una piena spersonalizzazione, al suo pieno affrancamento da ogni dovere morale personale, da ogni indipendenza, lo porta alla più schifosa schiavitù immaginabile. » E ancora, in “Memorie dalla casa dei morti”: «Il grado di civilizzazione di una società si può misurare entrando nelle sue prigioni». 

Quindi Dostoevskij non tarda a materializzarsi in qualità di genio dall’esistenza concreta. E che esistenza. Questa la trasferisce nei fondali delle sue opere, specialmente la San Pietroburgo che vi torna a più riprese. Nelle descrizioni d’ambiente, è così vivido da restituire ancor oggi il clima, gli odori, il vociferare, i clangori della Russia zarista. Una realtà geopolitica che Dostoevskij conosceva dalla prospettiva apicale di un intelletto ribelle, anche nei fatti. Il suo arresto con l’accusa di cospirazione e la prigionia nella fortezza di Pietro e Paolo sono capisaldi della “concretizzazione” di un individuo responsabile soprattutto di avere contribuito in maniera irripetibile alla costruzione del mito culturale che va sotto il nome di “classici russi del XIX secolo”. E anche fra questi, lui spicca per una portanza alare che travalica quella, per esempio, di Leskov, Turgheniev e Lermontov. Certo, rimangono sempre Cecov, Tolstoj, Gorkij. Tutti insieme compongono una sorta di Olimpo. Allora Dostoevskij è l’equivalente di Giove.

Eppure, a rivederlo nelle immagini che lo ritraggono, ha le dimesse e sofferte fattezze di un intellettuale schivo e negato ad ogni velleità “autorevole”. L’esatto contrario del patriarca Tolstoj. La sua barba sembra anticipare il vezzo ultimamente divenuto un trend occidentale.

Uno scrittore italiano che seppe carpire il carattere per nulla supponente di Dostoevskij fu Guido Piovene. Lo fa apparire in “Le stelle fredde”, il romanzo che vinse il Premio Strega del 1970. Il protagonista narrante, abbandonata una donna di cui non è più innamorato, si rifugia nella sua tenuta di campagna, dove lo perseguita il marito della donna, vittima di un omicidio. Accusato averlo perpetrato, il personaggio di Piovene cerca un nascondiglio e dalla campagna gli si fa incontro un uomo che dichiara di essere Fëdor Dostoevskij. Nessuna impostura. È davvero il grande russo tornato dall’oltre tomba, che racconta come un’in terminabile camminata di anime morte.

Piovene ricorre a Dostoevskij per creare una rappresentazione della discesa agli inferi vista da un individuo senza presunzione di onniscienza, che proprio per questo si fa latore dell’infinito.

In una lettera a N.D. Fonvizina, afferma: «Sono un figlio del secolo del dubbio e della miscredenza e so che fin nella tomba continuerò ad arrovellarmi se Dio sia. Eppure se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente

vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».

Tolstoj non ebbe mai di questi dubbi, e se ciò gli fa onore sul piano meramente religioso, lo confina in un’iconografia statuaria.

Perfino i capitoli di “Guerra e pace” acquisiscono una forma stilizzata ed immanente. Laddove nelle astrazioni di Dostoevskij il portato catartico strutturale della tragedia greca, citata in precedenza, si muove nella dinamica di gironi dal moto perpetuo della spirale. Un assetto cinetico che si ritrova finanche quando costruisce l’epopea familiare dei “Fratelli Karamazov”, in cui rifugge la saga familiare per un’indagine che sviscera i rapporti fra consanguinei senza concessioni al didascalico.

Questo perché lui viveva sulla propria pelle tutto quanto poi destinava alla carta. Lo testimonia l’e sperienza della grazia, che gli risparmiò solo all’ultimo momento la fucilazione. La presta all’Idiota: «A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili, una ricchezza enorme. In quel momento nulla è più penoso del pensiero incessante: “se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”».

( 23 novembre 2021 )

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