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Il Novecento di Eliot

di MAURO FABI

“Vari critici mi hanno fatto l’onore di interpretare il poema nei termini di una critica del mondo contemporaneo, l’hanno considerato davvero come un importante pezzo di critica sociale. Per me fu solo il sollievo da una personale e del tutto insignificante lagnanza contro la vita; è proprio un pezzo di lamentela ritmica”.

Sono le parole che T. S. Eliot pronunciò davanti a professori e studenti dell’Università di Harvard durante una conferenza. The Waste Land nasce proprio da questo stato di crisi del poeta dovuto all’affaticamento e al tormentato rapporto con la moglie: nell’estate del 1921 ci fu una specie di crollo nervoso e verso il 10 novembre si recò a Losanna dallo psicologo Roger Vittoz. Qui trascorse un periodo di cura e scrisse, utilizzando anche vecchi frammenti e appunti, il poema che lo avrebbe reso immortale.

Nessuna velleità dunque di decifrare il senso (o la mancanza di senso) di un mondo che era appena uscito dalla barbarie della Prima Guerra Mondiale, che aveva visto dissolversi in una manciata di anni millenni di storia e di civiltà.

Le rovine puntellate di cui parla Eliot sono le sue rovine personali, il suo fallimento, il suo orizzonte di senso desolatamente vuoto.

Quali strumenti può adoperare uno scrittore per combattere un forte esaurimento nervoso? Cosa gli rimane dopo che tutto il suo limitatissimo universo è imploso in una specie di deserto interiore? Gli rimane la cultura. Non furono i tranquillanti o l’aria di Losanna a far uscire Eliot dalla depressione, fu la scrittura sorretta da un’incerta, frammentaria, eppure taumaturgica tradizione culturale.

La terra desolata sembra il collage di un dilettante se lo paragoniamo all’immensità illeggibile dei Cantos poundiani, eppure di tutta la sconfinata opera del maestro solo i Canti pisani forse raggiungono la drammaticità e la profondità lirica del poemetto di Eliot. Si può dire questo: che nella storia dell’uomo sarà sempre possibile riscrivere un’opera enciclopedica, immane come fu quella di Pound, ma c’è stato un momento irripetibile in cui è stato possibile scrivere che “aprile è il mese più crudele”. Non posso spiegare (nessuno lo può) perché aprile è diventato questa cosa e non più quella che tutti sappiamo, io so cosa voleva dire Eliot con questo incipit magico e terribile, ma nessuna nota, nessuna glossa renderà giustizia al mio saperlo né tanto meno alla sua poesia. Per questo non mi azzarderò in interpretazioni o spiegazioni di quanto vi è di oscuro nella Terra desolata, lo stesso Eliot cercando di farlo non fece che rendere ancora più incomprensibili i suoi versi più criptici. E in generale reputo un’eresia glossare un testo poetico: la Divina Commedia con le note a piè di pagina diventa un poema illeggibile, e se lo si fa è solo perché abbiamo ereditato dal passato questa idea assurda di un lettore incapace che debba in ogni caso essere accompagnato nella lettura. La poesia è in se stessa inspiegabile, come la musica (come ciò che l’ascolto della musica suscita in noi).

Che poi il poema di Eliot sia diventato uno spartiacque (più dell’Ulisse di Joyce o dell’Uomo senza qualità di Musil) tra il vecchio mondo e i suoi millenari valori e quello che ancora oggi stiamo vivendo, è un dato di fatto.

Se si pensa che le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke sono state pubblicate nel 1922, si ha la misura esatta della modernità dell’opera di Eliot: immensa la poesia del primo, struggente e meravigliosa come è solo il verso baciato da un’illuminazione divina, eppure totalmente calata nel secolo passato; tragico e devastante il timbro della Terra desolata, stravolto da una accecante luce profetica, la voce di Tiresia che ha visto e presofferto tutto: sguardo che deve distogliersi per dolore e non per troppo amore come nel caso di Rilke.

La modernità del poemetto di Eliot sta proprio nella sua frammentarietà, nell’impossibilità di pensare ancora al sapere come a un blocco granitico trasmissibile: la conoscenza è un inesauribile accavallarsi di culture, un mosaico incoerente fatto di pietruzze cangianti a seconda della prospettiva e dello stato d’animo, nessuna certezza nel futuro, si potrebbe forse dire nessun futuro.

Nata dunque da una profonda crisi personale, l’opera ebbe su Eliot un effetto taumaturgico, il montaggio fauve dei versi rispecchia fedelmente il suo essere scisso e devastato, il sovrapporsi di erudizione e poesia creano un mix perfetto ed equilibrato (dove in Pound invece una specie di caos metafisico, l’enciclopedia impossibile di un genio), irripetibile.

La musica che sottende alla Terra desolata non è l’armonia angelica delle Elegie di Rilke, è una musica che deve fare i conti con la siccità e con l’assenza del divino, con la spettralità anonima delle grandi metropoli occidentali, con la fine della passione. Quel divino che invece eromperà negli inarrivabili Quattro quartetti, opera di gran lunga migliore e ispirata da un profondo senso religioso. Per adesso ci sono le “Unreal City”, il cadavere piantato nel giardino, il vicolo dei topi “dove i morti hanno perso le ossa”. Stiamo a un passo dagli uomini impagliati.

 

( 22 gennaio 2021 )

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