Mercoledì 24 aprile 2024, ore 12:57

Poesia

L'umanesimo sofferto di Beppe Salvia

di ALESSANDRO MOSCÈ

Beppe Salvia è un poeta che la scuola romana degli anni Ottanta non ha mai dimenticato nell’orientamento e nel dibattito tardo-novecentesco, senza dubbio tra i più fertili del secolo scorso. Nato a Potenza nel 1954 e venuto a mancare tragicamente nel 1985, Salvia ha acquisito nel tempo una considerazione sempre maggiore un po’ ovunque, in particolare nella fiera partita contro lo sperimentalismo e ogni forma di avanguardia, fino a diventare un mito tra i fedeli sodali e ad interessare il mondo accademico. I testi che conosciamo, dalle riviste “Prato pagano” (fondata da Gabriella Sica) e da “Braci”, i cui numeri furono nient’altro che ciclostili fatti a mano, promossi da Arnaldo Colasanti, Claudio Damiani, Gino Scartaghiande, Giuseppe Salvatori e dallo stesso Salvia, rappresentano un punto di snodo non solo per capire le ragioni del “lavorare insieme”, ma anche per verificare le intenzioni di due gruppi alquanto operativi e innovatori. La casa editrice Interno Poesia ha dato alle stampe Cuore (2021), la raccolta di Beppe Salvia che fu pubblicata per la prima volta nel 1987 dall’editore Rotundo, dopo la morte dell’autore, e che aveva l’iniziale sottotitolo di Cieli celesti. Come scrive Sabrina Stroppa nella prefazione alla nuova versione di Cuore, i giovani letterati romani rimisero a fuoco “il portato emotivo e vitale della poesia”. La poesia onesta, sabiana, di Beppe Salvia, è tutt’altro che semplice, ma leggibile e comprensibile dentro quel “sentimento crepuscolare”, per dirla con Eraldo Affinati, che la contraddistinse sin dai primi componimenti. Leggere Salvia ci proietta in un umanesimo sofferto, in un’illuminazione con ombre a lunga gittata, in una lacerazione esistenziale tra uomo e natura. Il male di vivere montaliano si salda con una legge cosmica, leopardiana, in un “tempo normale” eppure inesorabilmente condannato.

Lo sguardo vigilante risulta spesso un fremito accomunabile a quello degli uccelli in volo, “panni ravvolti cenci tinti di pece”: un’istantanea e un transito

che marchiano a fuoco l’asprezza delle stagioni dimenticate in fretta. Eppure Cuore è un libro non plasmato nel nichilismo e che si ammanta di un bisogno di assolutezza, del coraggio di esistere, di relazionarsi nei formativi laboratori di poesia (Salvia frequentò, tra gli altri, Elio Pagliarani). “A scrivere ho imparato dagli amici, / ma senza di loro. Tu m’hai insegnato / a amare, ma senza di te. La vita / con il suo dolore m’insegna a vivere, / ma quasi senza vita, e a lavorare, / ma sempre senza lavoro”. Andrea Zanzotto, forse meglio di chiunque altro, sottolineò “una luce di giovinezza e di alba e qualcosa di terribilmente teso verso lontananze imprendibili”. C’è anche dell’ermetismo nei versi di Salvia, come il piacere di utilizzare parole vetuste: egro, usbergo, cretto ecc. Non manca un certo piacere descrittivo, la costruzione di polittici dove compare la tonalità di partiture con le “città grandi”, i “viali elettrici”, le “luci limpide”, oltre ai tanti cieli, al mare, alla campagna.

( 12 gennaio 2022 )

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