Non è solo l’auto di Diabolik nell’immaginario italiano. La Jaguar E Type costituisce un’opera d’arte industriale. Sì, perché anche con la tecnologia si possono realizzare prodigi espressivi. Del resto, Walter Benjamin aveva fatto testo fin dal 1936 con il suo studio sulle modificazioni sostanziali prodotte dalla civiltà avanzata rispetto all’unicum del capolavoro tradizionale. Non che l’E Type sia proprio un esempio di riproducibilità massificata. Pure, l’archetipo del sogno carrozzato per molti ancora oggi rappresenta la possibilità di acquisire in proprio un esemplare di quell’unicità che nel passato spettava solamente agli inimitabili reperti artistici. A cominciare dal prezzo. Appena uscita dalla fabbrica nel marzo del 1961, l’E Type costava molto meno di altri modelli della medesima categoria e cilindrata. Tanto da guadagnarsi l’ammirazione del grande Enzo Ferrari, che ammirandola sul podio del Salone dell’Automobile di Ginevra, il 15 di quello stesso mese, la definì la più bella macchina che avesse mai visto.
Concepita per l’alta velocità, la Jaguar conservava comunque la linea del coupé classico, con un lungo frontale, mentre altre case automobilistiche andavano in direzioni di sagome differenti, meno spaziate anteriormente, precorrendo la necessità di economizzare sugli spazi e sui materiali.
L’E Type si doveva all’ingegno dell’aerodinamico Malcolm Sayer, già celebre in quegli anni per avere lavorato nella Bristol Aeroplane Company, durante la seconda guerra mondiale. Da quell’azienda erano usciti i leggendari biplani da ricognizione a due posti del 1914 e successivamente il caccia. Quest’ultimo venne poi perfezionato nel Beaufort allo scoppio delle ostilità con la Germania, nel 1940. Quindi l’esperienza professionale dell’ingegnere Sayer proveniva tutta dalla costruzione di mezzi capaci di sfidare il vento, l’attrito e la resistenza atmosferica in generale.
La Jaguar E Type poteva dunque considerarsi un aereo da terra, che rispondeva innanzi tutto a canoni di sicurezza validi perfino oggi.
La versione iniziale, detta “Fixed Head Coupé”, aveva un motore da 3800 cmc, alimentato da tre carburatori, con una potenza di 265 CV. Il cambio era meccanico, a quattro marce, con la prima non sincronizzata. Nel 1965, in una delle numerose varianti dell’E Type, si arrivò a un motore di 4200 cmc.
Questo autentico giaguaro di metallo non concedeva requie ai percorsi più impervi. La passione degli inglesi per le macchine provvedeva a dotare l’E Type di requisiti come la solidità, la presa sul terreno e l’assetto. Tanto più con la guida a sinistra adottata nel Regno Unito, nei Paesi del Commonwealth e ai tropici.
Ma l’auto ebbe un successo ineguagliabile anche negli Stati Uniti, dove fu presto assimilata ai bolidi da corsa di categorie diverse dalla tradizionale formula 1.
Dopo le 70 mila vetture della prima stagione, l’E Type venne sottoposta a revisioni, modifiche e riadattamenti. All’inizio degli anni ’70, si sperimentò una carrozzeria di alluminio. Quanto agli interni, la comodità dei sedili era da poesia, e il cruscotto in finta pelle contribuiva al comfort dell’autista e del passeggero.
Nessuna meraviglia, allora, che la Jaguar E Type sfondasse in tutte le possibili forme mediatiche. Il fumetti di Diabolik la resero un feticcio per il pubblico italiano. Con un effetto di ritorno per la casa produttrice inglese, i cui responsabili chiesero all’editrice milanese Astorina di poter inserite stralci dei fumetti nel volume uscito a cinquant’anni dall’esordio dell’E Type. E dire che inizialmente quelli della Jaguar diffidarono le autrici di Diabolik, le sorelle Giussani, temendo che l’auto in mano a un criminale facesse pubblicità negativa.
Non la videro così quando a guidarla fu Ursula Andress nella parte di Caroline, l’assassina ipersessuata de “La decima vittima”, il film del 1965 diretto da Elio Petri e scritto, fra gli altri, da Ennio Flaiano, sulla scorta del noto racconto di Robert Sheckley che ipotizzava l’omicidio legalizzato nel futuro.
Al picco degli sceneggiati in bianco e nero della televisione italiana, vi fu un altro momento di gloria per quest’auto da mitologia. Nel giallo a puntate “Un certo Harry Brent”, tratto dal romanzo del prolifico autore inglese Francis Durbridge, il protagonista, interpretato dal fascinoso e ormai compianto Alberto Lupo, si muoveva per Londra e dintorni su una Jaguar E Type decappottabile. Un investimento cospicuo da parte della produzione. L’abbinamento del volto più popolare della RAI all’automobile più ambita, con il supporto avvincente dell’ennesima trama di Durbridge, campione assoluto del giallo televisivo, concorrevano a far innalzare gli indici di ascolto verso picchi mai più raggiunti dell’era successiva dello zapping.
Altre apparizioni memorabile dell’E Type si ebbero nel film “Harold e Maude” (1971), di Hal Ashby, e nella serie di telefilm “The Avengers – Agente Speciale”.
Ultima frontiera dell’apoteosi mediatica della Jaguar non possono che essere i videogiochi.
Di questo mito contemporaneo si possono pensare molte cose. La sua persistenza, comunque, basta a riempire un’altra scansia dell’immaginario.