La monocromia è stata l’unica chance della pittura di differenziarsi dalle altre arti: la superficie, che ha di volta in volta descritto, alluso, suggerito, che è stata teatro di idilli e drammi e vaniloqui, ora è muta. Sull’ultimo atto della pittura è caduto un sipario monocolore e sarebbe vano indugiarvi in mistica contemplazione”. Così dichiara Enrico Castellani, uno dei massimi esponenti della scena artistica del secondo Novecento (figura di riferimento per il mondo dell’arte a livello internazionale), in uno dei suoi pochi scritti risalente al 1959, poi divenuto sua prima dichiarazione poetica. Lui che, nel suo continuo sperimentare a partire dalla prima opera estroflessa (Superficie nera) fino alle sue ultime opere (Superfici in grafite e acciaio), rimane fedele alla monocromia.
Spazio e tempo, introflessioni e estroflessioni, luci e ombre, davanti e dietro, negativo e positivo rappresentati in un’infi nita scala di combinazioni, nelle tele monocrome di Enrico Castellani si completano, annullando la classica idea della rappresentazione. Il suo alfabeto parla del tema della luce e “le sue superfici non facendo più parte del dominio della pittura o della scultura e potendo assumere dell’architettura il carattere della monumentalità, sono il riflesso di quello spazio interiore vitale e pertanto esistono in quanto oggetti per la durata di un attimo prima che il tempo le confini nella loro materiale precarietà”, come scrive lo stesso nel 1961. A “Enrico Castellani” per la prima volta dopo la sua morte (e per la prima volta in Svizzera),
il Museo d’arte di Mendrisio, dedica una ricca monografica che vuole riassumere, seguendo un ordine cronologico, l’in tera sua carriera artistica a partire dagli anni Quaranta fino al primo decennio del XXI secolo, attraverso 60 opere di grande impatto estetico ed emotivo. Un impatto che non può lasciare il visitatore indifferente, smarrito e contemporaneamente affascinato, perché di fronte alle opere di Castellani si prova un vero e proprio senso di vertigine, rapiti dal gioco di luci e ombre che non permettono un punto di vista univoco e statico. Il lavoro, che egli compie con le tele e con i materiali che via via con il tempo sperimenta, non è solo un atto concreto, ma è un’azione complessa e di pensiero, che può nascere solo da un artista-artigiano alla perenne ricerca di un linguaggio capace di rappresentare spazio e tempo.
Nato nel 1930 a Castelmassa, in provincia di Rovigo, Castellani si sposta con la famiglia a Galliate in provincia di Novara dove compie gli studi medi. Dopo aver ottenuto il diploma di geometra frequenta l’Acca demia di Brera e si diploma in Belle Arti, assecondando il suo amore per la pittura. Nel 1952 raggiunge il fratello Italo a Bruxelles, dove si iscrive all’Acadèmie Royale des Beaux-Art. che presto però abbandona perchè non trovata corrispondente alle sue esigenze, spostandosi alla Ecole nationale Superieure d’architecture et des arts decoratifes de La Cambre dove nel 1956 si laurea in Architettura, lavorando contemporaneamente presso lo studio degli architetti Hendrickx & Stevensen. La sua formazione d’architetto è evidente in ogni suo lavoro: nelle sue opere è sempre il progetto la parte fondamentale, rappresentato dal disegno, espressione dell’idea, che poi viene realizzata nel prodotto finale. La progettazione fa d’altro canto parte della sua professione: egli è architetto, geometra, capo cantiere, falegname, fabbro, un insieme di competenze che gli danno una visione a 360 gradi del lavoro, permettendogli di attuare una ricerca rigorosa che stupisce ancora oggi per coerenza ed armonia. La monografica di Mendrisio, curata da Barbara Paltenghi Malacrida, Francesca Bernasconi e Federico Sardella, visitabile dal 24 marzo al 7 luglio, è introdotta da una sala, che funge da anticamera alla mostra, in cui con una panoramica di opere viene sintetizzata la varietà degli esiti, ma contemporaneamente l’u niformità e coerenza espressiva, di Castellani attraverso i suoi più imponenti lavori eseguiti nell’arco di quarant’anni: dalle “Superfici bianche” alle “Superfici alluminio”, dalle “Superfici triangolari” al grande “trittico” del 2008, raccontati in modo preciso da un documentario in cui sono raccolte le poche interviste rilasciate dall’arti sta. Alla metà degli anni Quaranta risalgono i suoi primissimi lavori da cui traspaiono le sue abilità e il suo desiderio di diventare un pittore, come più volte durante la vita lo stesso dichiara. La mostra si apre proprio con un quadro da lui eseguito nel 1947, appena diciassettenne (Ponte provvisorio sul fiume Po con una parte del ponte distrutta dai bombardamenti), esposto al pubblico per la prima volta, in quanto parte della collezione personale dell’artista e conservato nella sua abitazione come fosse una sorta di monito. La natura è solo sullo sfondo e il protagonista indiscusso è l’uomo, capace con la sua opera di dare vita a strutture utilissime ma anche con con la sua furia distruttiva di distruggerle. In primo piano il Ponte della Becca (in parte distrutto dai bombardamenti), è rappresentato con una struttura in acciaio tubulare che disegna pareti reticolari attraversate da doppie diagonali, elemento ravvisabili poi in moltissime sue opere, a partire dalla sua primissima “Superficie nera” a rilievo, retta da una diagonale che determina la posizione in relazione a essa di quindici punti estroflessi e introflessi, come a disegnare una costellazione. Opera questa che segue una lunga serie di sperimentazioni sull’imma gine o sul suo contrario (alcune presenti in mostra) compiute tra il 58 e il 59, dopo aver abbandonato l’arte figurativa, così come la pittura astratta. La ricerca dell’anti-illusionismo e dell’anti decorativo porta Castellani a manipolare le superfici mediante tecniche miste, dalle increspature plissè alle imbottiture, fino a giungere alla bidimensionalità attraverso rigonfiamenti della superficie che pongono in rilievo il tessuto pittorico.
Nella serie di carte note come “Ombre” esposte sempre nella prima sala si nota come l’artista con china e acquarelli realizzando cerchi, tondi e figure globulari attui una continua esplorazione formale che lo porta ad approdare proprio alla prima superficie in rilievo ottenuta attraverso l’uso artigianale di nocciole inserite nel retro di una tela ottenendo una estroflessione, nocciole che poi vengono sostituite con un chiodo spinto fino in fondo ottenendo così la prima introflessione. Il 1959 per Castellani è un anno molto importante e questo grazie anche all’amicizia che allaccia con Piero Manzoni. Rientrato infatti fresco di laurea nel 1956 a Milano, dopo aver iniziato a collaborare con lo studio dell’architetto Franco Buzzi, insieme a Piero Manzoni fonda la Galleria Azimut, e la rivista “Azimuth”, che uscirà in soli due numeri (1959 e gennaio del 1960). Azimuth presto diventa un gruppo programmatico formato da giovani artisti attivisti uniti da un sentire comune, mossi dalla volontà di azzerare e ripartire rivoluzionando l’arte del tempo con coordinate riprese da anche da altri movimenti (come dal dadaismo) e da altri artisti non solo italiani ma anche stranieri, come Klein, Picavia, Mondrian, di cui ne pubblicano le idee. All’in terno di alcune teche lungo i corridoi della mostra sono visibile le riviste e i testi teorici lasciati da Castellani e dagli amici di Azimuth. Grazie a Manzoni entra a contatto con gli artisti di ZERO, che lo invitano a partecipare alle loro attività a più riprese. Tra gli anni 60 e 70 i suoi impegni artistici e le sue sperimentazioni si moltiplicano e numerosissime sono le occasioni di mostre e esposizioni in Italia e all’estero. Egli prosegue la sua attività dopo la morte di Manzoni in solitaria, grazie anche al sostegno di Beatrice Monti della Corte con la Galleria dell’Ariete, continuando ad elaborare il suo linguaggio, che a differenza di Manzoni rimane un linguaggio pittorico. Pur sconfinando infatti il suo lavoro in un ambito che riguarda anche il rilievo e la scultura egli si serve sempre degli strumenti propri della pittura. Tra il 1962 e il 1967 su invito dell’architetta Nanda Vigo realizza una serie di monumentali opere a rilievo pensate appositamente per i luoghi che devono ospitarle.
In mostra è presente una superficie monumentale, inserita in un percorso museale per la prima volta, di colore bianco (lunga 4 metri) nella cui parte centrale si concentrano una serie di introflessioni e estroflessioni, che spingono il loro flusso ritmico oltre il loro spazio. Si tratta di una parete realizzata per essere posizionata nell’atrio di un condominio di Via Palmanova a Milano, (come si vede da foto dell’epoca) dove è rimasta fino al 2016, progettato dalla stessa Vigo in collaborazione con Cesare Tacchio.
Seguono poi due sale opposte: in una prima sale sono presenti dei dittici, opere piegate a metà in cui il lavoro assume anche una connotazione volumetrica, non rimandando solo ad un volume, ma costituendo esso stesso un volume, e una sala in cui è allestita (accanto ad alcune opere sagomate, in cui si assiste ad un incremento tridimensionale dei lavori), la sua opera “Spartito”, concepita nel 1969 per una mostra personale alla Galleria Tartaruga di Roma. Si tratta di una scultura di carta nata dalla sovrapposizione di fogli uno sull’altro tenuti insieme da rondelle ai lati, in cui Castellani gioca sull’illusione e dove nulla è casuale, neppure il titolo che allude non allo spartito musicale ma ad un concetto di non separazione. Egli dice infatti “è più un incontro che una spartizione”, confondendo con tale definizione le possibili allusioni a un ambito prettamente sonoro. Sempre nel 1968 Castellani partecipa all’ evento “Il teatro delle mostre”, organizzato alla Galleria Tartaruga di Roma, con la sua opera dal titolo “Il muro del tempo”: una disposizione lineare di otto metronomi identici collocati a eguali distanze tarati singolarmente a velocità differenti, in modo che pur partendo contemporaneamente terminino la carica in tempi diversi. A partire dal 1973, chiusa anche la Galleria dell’Ariete, venuto a meno il sostegno della sua gallerista, dopo un periodo trascorso in Svizzera, Castellani decide di lasciare definitivamente la città di Milano e di trasferirsi insieme alla moglie definitivamente a Celleno in provincia di Viterbo, dove acquista un edificio fortificato medioevale, separando per sempre la sua attività dal sistema commerciale e consumistico del mercato dell’arte. Qui continua nel suo isolamento artistico a dedicarsi alla sperimentazione producendo una serie di opere a partire dalla “Serie blu” attraverso la quale introduce il concetto della scansione delle tele all’interno dello spazio, fino ad arrivare ad usare materiali via via differenti, dall’alluminio aeronautico smaltato, con cui perfeziona i suoi angolari e biangolari, iniziati a creare nei primissimi anni sessanta, alla graffite (opere con cui si conclude la monografica), materia naturale che rende le sue superfici ancora più riflettenti grazie ai minuscoli cristalli che le conferiscono una luminosità metallica, fino all’utilizzo anche di oggetti di uso quotidiano come nell’opera “Quattro bilance” e “Asse in equilibrio”, in cui, calibrando i rapporti peso e volume grazie alle sue conoscenze fisico matematiche, dimostra come la ripetitività degli elementi posti uno accanto all’altro nello spazio diano un’ idea di ritmo spazio temporale.
Il suo carattere schivo e riservato accanto al suo ritiro dal mondo pubblico certamente nel tempo non hanno contribuito a dargli quella fama che il suo genio artistico avrebbe meritato e che ora con questa monografica, completa dei suoi principali capolavori, ci si auspica di restituirgli, non solo in Italia ma anche all’estero, superando l’idea di un artista monotono e noioso, poiché come egli dichiara “la mono-tonia è la caratteristica di tutti gli artisti, di tutte le epoche, intesa nel senso di univocità”, un solo tono, una sola voce, rendendo pertinente il termine anche all’am bito sonoro in perfetta adesione al concetto di ritmo, tempo, spazio, da lui ricercati per tutt