Il mal d’Africa è l’ennesimo luogo comune del pensiero occidentale appiattito sulla ricerca di un altrove paradisiaco e quasi sempre, invece, brutto sporco e cattivo. Il mito del buon selvaggio nacque nei salotti illuministi di Parigi, lontani dalle terre che sulle carte geografiche venivano indicate con la formula “hic sunt leones”, inesplorate e pericolose.
Wilbur Smith in Africa ci era nato, cresciuto e vissuto. Accollandosi quello che Rudyard Kipling definì “il fardello dell’uomo bianco”. Non c’entrano il colonialismo, l’imperialismo, il razzismo e tutti gli altri “ismi” di cui la cultura contemporanea ha riempito i nuovi sciocchezzai. Smith apparteneva alla numerosa comunità bianca che costituisce una parte importante della popolazione nativa africana. Radicata da molte generazioni e quindi ben in diritto di definirsi appartenente a quell’ampia placca continentale da cui sembra accertato che derivi la specie umana.
Perciò nei suoi romanzi di azione, avventura e costume non riproponeva il solito esotismo da tavolino. Altro che mal d’Africa. Smith sviscerava l’essenza di luoghi inconoscibili dal nord del pianeta, neanche dopo anni di residenza acquisita e spuria. Si pensi a tanta ristorazione italiana che ha traslocato dalla penisola a Malindi e dovunque tra le savane e le foreste pluviali. Quello è folclore mediatico.
Wilbur Smith ha ripercorso le vicissitudini di faraoni, imperatori, cacciatori, eroi solitari la cui sola ragione di esistenza letteraria (ma anche reale) era l’Africa. Facendola amare da milioni di lettori sparsi per tutte le latitudini e longitudini dell’orbe terracqueo. Si imparano più cose dai suoi romanzi che dai saggi di Dambisa Moyo, che pure esplicita con ampiezza i risvolti di un continente destinato a divenire l’autentico polo dell’umanità.
Negli intrecci di Wilbur Smith non c’era un’oncia di artificio. Il fatto di essere anglofono costituiva solamente un vantaggio per le traduzioni in tutto il mondo. Ma la sua lingua divergeva del tutto da quella dei troppi autori da classifiche di vendita. Grazie anche ad una maturità precocissima di Smith. Morto a 88 anni, lo si dava più che ottuagenario dagli esordi. Facendosi avvincere dalla sua scrittura, si aveva l’impressione di leggere un classico dell’Ottocento. Russo, più che francese, per le sue escursioni sempre corali, allargate, un po’ anche alla Garçia Marquez. Smith, però, non aveva bisogno del realismo magico per incantare. Gli bastava l’Africa. Non “la sua Africa”. Quella vera.