Giovedì 25 aprile 2024, ore 7:08

Architettura industriale

Lo spazio della fabbrica

Raramente quando una fabbrica chiude, l’impresa che essa rappresenta muore. Il vuoto che un edificio industriale dismesso genera non coincide infatti quasi mai con un’effettiva rottura nella storia di un’azienda. E questo perché l’architettura industriale può rappresentare l’impresa ma non se ne identifica, e può quindi paradossalmente continuare a dominare spazi urbani ed extraurbani anche quando l’impresa ha de localizzato produzione e lavoro. E’ a questo complesso “paesaggio industriale” che rappresenta la fabbrica nel suo multiforme insieme che è dedicato l’interessante volume di Roberto Parisi, storico dell’architettura all’università del Molise, che ormai da diversi anni destina una parte della propria attività di ricerca all’architettura di tipo produttivo e alle trasformazioni da essa indotte sul territorio, con particolare attenzione al Mezzogiorno d’Italia. Uno studio dove innanzitutto occorre eliminare certe distanze che si sono venute a creare tra saperi scientifici e umanistici, nella consapevolezza fondamentale e proficua che la fabbrica, modernamente intesa, rappresenta “uno spazio che domanda, per essere indagato, non evocato, una pratica reale di interdisciplinarietà”. Se siamo abituati a pensare alla fabbrica esclusivamente come un opificio dove uomini e macchine interagiscono per produrre merci e beni, avremmo infatti solo una visione parziale nella ricostruzione scientifica della sua storia. La fabbrica è questo ma è molto di più. E’ un luogo innanzitutto voluto dagli imprenditori; pensato da ingegneri e architetti, e quindi costruito, facendo così confluire in uno spazio fisico risorse materiali e immateriali. In questo luogo si è cercato poi di ottimizzare la produzione, sperimentando sistemi di guida dei comportamenti umani finalizzati al lavoro, nella ricerca di un benessere sociale collettivo. Parisi sottolinea proprio la necessità di indagare globalmente le dinamiche e le strategie di utilizzazione delle risorse naturali e antropiche confluite nello spazio fabbrica. Il che tradotto significa anche far riferimento ai modi di produzione, che possono essere per esempio ad automazione rigida o a domicilio; o alle varie tipologie del lavoro salariato, che può essere a cottimo o a turni o flessibile. E tutto quel che quindi ha concorso nel determinare di una fabbrica ubicazione, forma e funzioni. Molte e interessanti sono le riflessioni di Parisi su quella che è stata l’architettura industriale dall’Unità alla fine del Secolo breve, in una ricerca storica che pone in evidenza alcune questioni che affliggono la contemporaneità ma che hanno avuto delle incredibili anticipazioni già in alcune esperienze postunitarie. E’ il caso ad esempio delle attualissime tematiche dell’alta automazione e del problema energetico. Era il 1865 quando l’ingegnere Ernest Stamm, con riferimento all’industrializzazione italiana parlava della necessità di sganciarsi dal protezionismo locale e in un’ottica di mondializzazione introduceva la necessità dell’automatizzazione della produzione con la progressiva riduzione della forza lavoro umana. E due anni dopo l’italiano Giuseppe Colombo si faceva per primo portavoce delle paure occidentali per l’esaurimento delle risorse carbonifere cui supplire con una possibile utilizzazione del calore solare e delle forze naturali. Tutto questo passando attraverso il lanificio Rossi di Schio, l’Olivetti di Ivrea, le Nuove Officine Fiat di Torino, e tutte quelle meravigliose realtà industriali che nell’immaginario collettivo hanno rappresentato il passaggio dalle “cento Italie agricole” alla prima industrializzazione del paese.

Mauro Fabi

( 6 marzo 2021 )

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