Roma caput criminis. È quella che Giancarlo De Cataldo ha raffigurato con maestria epica in “Romanzo criminale”. Ma cosa ne resta oggi, nel terzo decennio di un secolo impregnato di violenza su tutte le articolazioni del vivere collettivo, dalla finanza al terrorismo, dalla politica alle mafie, dai rapporti interpersonali al disfacimento della famiglia?
Nel suo nuovo romanzo, “La Svedese”, De Cataldo dà una risposta fatta di narrativa a tempo di rap.
Nella cui dirompenza ritmica si riflette la frammentazione delle regole malavitose. Estinta la banda della Magliana, Roma è il far west di molteplici raggruppamenti delinquenziali, nessuno capace di rapportarsi ai “codici” di una volta. Vi incappa Sharon, detta Sharo, ragazza di borgata, che da un’esistenza precaria e miserevole si ritrova proiettata nel giro della grande distribuzione di stupefacenti. Anche questi ultimi fuoriusciti dal vecchio giro di sostanze tossiche. Non più l’eroina, e neanche troppa cocaina.
Sharo ha un ragazzo, Fabio, che consegna all’alta società la “Gina”, droga degli stupri. Per via di un casuale incidente sul monopattino elettrico, lui la incarica di portare a termine la commissione.
Sharo giunge così a casa di Orso Alberto de’ Venturi, autentico principe, nonché debosciato oltre misura.
Tra il nobile e la borgatara si sviluppa uno strano rapporto che consente a lei di dare rapidamente la scalata nella Roma criminale del XXI secolo. La sua figura allampanata, dai capelli biondi, le guadagna il soprannome di “Svedese”. Dapprima un privilegio, poi un carico di indesiderate responsabilità. Quando si mette a smerciare in proprio, si trova contro il boss del quartiere, l’Aquilotto, e Jimmy, capo degli albanesi. La posta in gioco è altissima, perché si possono fare soldi con molecole psicotrope non illegali, come nella trilogia di “Smetto quando voglio”. Qui però non c’è la commedia, solo l’incalzante fatalismo tipico del noir. Sharo finisce per trovarsi contro un nemico ben più pericoloso dell’Aquilotto e degli albanesi: la ndrangheta.
L’architettura che De Cataldo erge su queste basi iperrealistiche, diviene una cattedrale popolata della generazione succeduta al Freddo, al Nero e agli altri della Magliana. Di gran lunga più imprevedibili.
Tanto che per raccontarli al millimetro, De Cataldo sceglie l’argot dei bassifondi non soltanto nei dialoghi. E nella bocca della Svedese, ogni vezzo romanesco acquisisce l’inesorabilità di una sentenza inappellabile, il eco persiste a lettura ultimata.