Mercoledì 24 aprile 2024, ore 3:29

Libri

Ravel tra noia e insonnia

di MAURO FABI

Dire che il “Ravel” dello scrittore Jean Echenoz sia un bel libro sarebbe oltremodo inesatto: queste cento pagine hanno la consistenza di un pezzo di ghiaccio, e bruciano come può bruciare un pezzo di ghiaccio. Lo stile del narrare è asettico più che asciutto, nessun commento, nessuna concessione al lettore e all’artificio letterario, né appunto alla ricerca della bellezza formale. Per questo non si può dire che questo sia un libro bello, è una descrizione semplicemente tragica della vita di un uomo, o meglio, di una parte della vita di quest’uomo: i suoi ultimi dieci anni. Non concordo affatto con quanto ha scritto Piero Citati di questo romanzo, che in esso si parli cioè soprattutto di oggetti, di cose. Se è vero, lo è solo nelle prime pagine, quando Echenoz si sofferma sul colore delle innumerevoli cravatte o dei pigiami, o delle venature dei legni, o sul nécessaire per il manicure di marocchino finissimo a grana di lucertola. Per il resto si parla della pienissima e stentata vita di Maurice Ravel, all’epoca considerato, insieme a Stravisnskj, il più grande compositore vivente. Ravel abita in una casa minuscola, minuscole sono le stanze, angusto il corridoio, e si circonda di ninnoli altrettanto minuscoli: questo è tutto il suo mondo. La casa dà su una vallata, l’ha comprata apposta e anche perché di più non poteva permettersi dal momento che, se anche è il più famoso compositore del suo tempo, non è un uomo ricco. La casa è piccola ma Ravel ha la struttura corporea di un fantino, è alto un metro e sessanta, pesa cinquantacinque chili, quindi ci si muove a suo agio. Dire questo può sembrare azzardato dal momento che quest’uomo è costantemente sopraffatto dalla noia e in più non dorme, più o meno mai. Di questo suo distacco dal mondo, di questo suo essere fuori dalla vita, quando è in pubblico non traspare che un vago accenno. Per il resto è sempre elegantissimo, i capelli bianchi spazzolati con cura all’indietro, le scarpe di vernice quando deve suonare (altrimenti si rifiuta di farlo), garbato, educato, addirittura flemmatico. Si fa fatica a credere che questo piccolo uomo, che conosciamo mentre si fa un bagno caldo nella vasca troppo alta per lui, e che non vorrebbe mai uscire dall’acqua, durante la prima guerra mondiale abbia cercato in tutti i modi di farsi spedire al fronte. Ma così fu: coloro che poterono osservarlo al volante di enormi autocarri verniciati mimeticamente, mentre si avvicina al Verdun incurante dei colpi del nemico, dovettero sicuramente sorridere. La testa appena visibile, un po’ troppo grande rispetto al misero corpo. Si fa fatica a pensarlo in giro per il mondo, ricevuto da capi di stato e re, portato in trionfo ovunque andasse. Già perché Maurice Ravel non apparteneva a questo mondo, così come la sua musica probabilmente non apparteneva a lui. Lui scriveva, componeva fraseggi che poi a stento riusciva a suonare e che negli ultimi tempi neppure riconosceva come propri. Ravel era un uomo totalmente solo, malgrado fosse circondato di gente e di personaggi che ad elencarne i nomi, si potrebbe ricostruire la storia culturale di un bel pezzo del nostro Novecento. In questo libro lo vediamo adirarsi solo due volte: con Toscanini, reo di aver eseguito il Bolero ad una velocità doppia di quella della partitura. E con Paul Wittgenstein, il fratello monco del grande Ludwig (altro essere tormentato che meriterebbe l’attenzione di Echenoz), che dopo avergli commissionato un concerto per mano sinistra (l’unica che possedeva) si prende la libertà di suonarlo aggiungendo fronzoli e abbellimenti laddove il nostro Maurice mai e poi mai avrebbe pensato di mettere. Tant’è che i due non si concilieranno mai, e la stessa cosa accade con Toscanini. Poi inizia il declino. I gesti diventano complicati, scrivere un’impresa, le idee rimangono imprigionate dentro un cervello che non funziona più a dovere, lavorare è impossibile. Cosa può fare Ravel che senza un progetto muore? Quando gli dicono che anche se non comporrà più nulla ha tuttavia scritto pagine memorabile nella storia della musica, risponde che lui non ha fatto nulla, non ha detto nulla di quello che aveva da dire. Infine gli aprono quella testa che non ne vuole più sapere di guarire: gli sondano le sinapsi e lo ricuciono. Dieci giorni dopo muore.

( 6 gennaio 2022 )

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