Martedì 23 aprile 2024, ore 17:15

Luigi Meneghello

Un intelletuale fuori dagli schemi

di LELLO GURRADO

Sulla copertina di “Libera nos a Malo” c’è “El pelele”, un famoso e curiosissimo quadro di Francisco Goya che rappresenta quattro donne che fanno ballare per aria un manichino. “El pelele” significa proprio manichino, fantoccio, ma in questo caso ci sia concessa la libera traduzione in “giocoliere”. Sì, perché “Libera nos a Malo” è un libro straordinario scritto da un autentico giocoliere della parola. Sto parlando di Luigi Meneghello che già nel titolo svela le sue caratteristiche. “Libera nos a Malo” è una frase evangelica latina che è superfluo tradurre, ma nasconde anche il desiderio dell’autore di allontanarsi dal paesello della campagna vicentina dove è nato, che si chiama appunto Malo, un paese che oggi ha circa quindicimila anime, ma nel 1922, quando Meneghello venne al mondo, figlio di un artigiano e di un’insegnante, ne aveva molti moltissimi di meno.

Il libro è del lontano 1963, scritto quando il quarantenne Meneghello aveva già fatto importanti esperienze di vita. A ventitrè anni si era laureato in filosofia con una tesi su Benedetto Croce; a venticinque una borsa di studio gli aveva consentito di trasferirsi all’università di Reading, in Inghilterra, dove aveva tenuto lezioni sul Rinascimento italiano; a ventisei anni aveva sposato Katia Bleier, una ebrea jugoslava sopravvissuta di Auschwitz e aveva deciso di restare in Inghilterra. La scelta venne presto premiata con l'assegnazione di una cattedra di letteratura italiana che Meneghello tenne fino al 1980. 

A proposito di Auschwitz, è importante ricordare la sua posizione durante il fascismo e la guerra. Meneghello aveva subito, come tutti i suoi coetanei, l’inevitabile educazione fascista, ma gli era bastato poco per ripudiarla e entrare, appena diciottenne, nel Partito d’Azione. L’esperienza partigiana fu intensa e importante e Meneghello in seguito la ricostruì nel libro “I piccoli maestri” uscito nel 1964, un anno dopo “Libera nos a Malo” e considerato una significativa testimonianza del valore assunto dalla Resistenza italiana. Nel 1998 venne portato anche sullo schermo, con  lo stesso titolo, dal regista Daniele Luchetti, che affidò il ruolo di Meneghello a Stefano Accorsi.

Ma torniamo a “Malo”. Un libro scritto da un giocoliere del linguaggio, abbiamo detto, e in effetti è così. Meneghello salta come il fantoccio del quadro del Goya, dal dialetto veneto all’italiano più forbito. Racconta della sua infanzia, dei giochi tra ragazzini, della guerra, di donne, di giochi, di religione e ogni occasione è buona per citare qualche verso di una filastrocca veneta. “El Conte de Milan, con le braghe in man, col capèl de paja, conte canaja”. Oppure “Andiamo la guerra, col sciopo ipartera, col sciopo inparman, pin! pu! pan”.

Questo è Luigi Meneghello, intellettuale fuori dagli schemi, ma anche giornalista attento ai mutamenti della società. Se è vero che aveva incominciato a scrivere articoli per i giornali a soli diciotto anni, esattamente nel 1940 collaborando col quotidiano “Il Veneto”, alla fine degli anni Sessanta, quando viveva ancora a Reading, sentì il desiderio di ripetere quell’esperienza e iniziò una collaborazione saltuaria con i quotidiani italiani – “Il corriere della sera”, “La stampa” e “Il Sole-24 ore” - ma anche con i britannici “The guardian” e “Times Literary Supplement”.

L’attività giornalistica continuò anche dopo il 1980, quando Meneghello tornò in Italia per stabilirsi a Thiene, a poco più di otto chilometri da Malo. Per una ventina d’anni visse un po’ in Inghilterra un po’ in Italia, ma dopo la morte della moglie, avvenuta nel 2004, non lasciò più il Veneto. Morì a Thiene, probabilmente per un infarto, nel 2007, ma chiese di essere sepolto nella sua Malo, da cui evidentemente non riuscì mai a liberarsi, accanto alla moglie. 

Non sappiamo quali siano state le ultime parole di Luigi Meneghello, ma ci piace pensare che siano state “Volta, la carta la ze finia”. Perché? Perché finisce così la filastrocca veneta che più di tutte le altre Meneghello amava ricordare, se è vero che sono anche le ultime parole di “Libera nos a Malo”.
A questo punto mi sia concessa una digressione personale. Da qualche anno svolgo brevi corsi di scrittura creativa, durante i quali trattiamo argomenti classici dello scrivere, come l’incipit, la creazione dei personaggi, lo sviluppo della trama, il rapporto col lettore e, ovviamente, il finale. Se è vero che trovare l’inizio di un romanzo o di un semplice racconto è problematico, altrettanto difficile è mettere la parola fine. Ci sono finali di ogni tipo e le lezioni a questo riguardo sono stimolanti e divertenti. Ebbene io, lo confesso, immancabilmente tiro in ballo Luigi Meneghello e convinco tutti quanti che “Volta, la carta la ze finia” è il modo più geniale per risolvere il problema.

Grazie anche di questo, grande inarrivabile  Meneghello.

 

( 28 marzo 2021 )

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