Il suo nome, come la sua fama, sono indissolubilmente legati al concetto di postmodernità. Fu infatti Jean-François Lyotard a introdurre il termine nel dibattito pubblico a partire da un lavoro che gli fu commissionato negli anni Settanta del secolo scorso dal governo canadese, una sorta di indagine sociologica che doveva far luce sul tipo di società che si era venuta a determinare dopo la fine delle grandi ideologie. Ne risultò un libro fondamentale, “La condizione postmoderna”, che era una riflessione epistemologica sulle strutture della modernità (Stati, partiti, professioni, istituzioni, tradizioni storiche, sistemi di pensiero) e su come e perché queste strutture (che Lyotard chiama grandi narrazioni) si fossero via via deteriorate, spostando la questione del senso dell’esistenza dal centro alla periferia, dalla semplicità alla complessità, dall’idea di una ragione normativa all’agonismo dei discorsi. Da qui l’assunzione della categoria di postmoderno per indicare successivamente, e in un modo abbastanza generico quanto abusato, un orientamento caratterizzato dal relativismo e dal soggettivismo. Anzi, più che un orientamento, un’atmosfera, una temperie, un’aura confusa e indeterminabile della contemporaneità. In concreto, la postmodernità indica la condizione dell’uomo orfano di fondamenti millenari: Dio, la scienza, la metafisica, la razionalità universalistica