"Pietà e compassione sono parole adatte a significare il nostro sentimento di partecipazione per il dispiacere altrui”, scrive nella sua “Teoria dei sentimenti morali”, pubblicata nel 1759, dove porta numerosi argomenti a sostegno della tesi che ogni uomo provi interesse per chi soffre. Intanto ci invita a riflettere sul fatto che il bene nel mondo è così largamente diffuso che difficilmente può essere ascritto solo all’educazione, benché anche questa possa rafforzare o indebolire, a seconda dei casi, l’istinto naturale verso la bontà. Poi ci ricorda che anche i frequenti casi di ravvedimento dei peggiori furfanti sono una prova del bene che abita dentro di noi. Quindi svolge un interessante discorso sulla natura dell’io dalla quale emerge che gli uomini si differenziano non per il possesso dell’altruismo, ma per l’intensità con la quale lo manifestano: non ci sono gli altruisti e gli egoisti, ma i più e i meno altruisti. Una distinzione fatta secondo una linea di gradualità piuttosto che per categorie riflette molto più realisticamente la composizione del genere umano. Infine, prima di passare a una fenomenologia del sentimento morale, procede a un’analisi psicologica delle facoltà umane, distinguendo esperienza diretta, quella che facciamo attraverso i sensi, e esperienza indiretta, quella che facciamo attraverso l’immaginazione. Ebbene, se con la prima sentiamo il nostro dolore, con la seconda immaginiamo il dolore dell’altro. Come funziona dunque l’altruismo?