Sabato 27 luglio 2024, ore 10:38

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Economista, sindacalista, politico e più volte Ministro, infine fondatore della Link Campus University. È una parabola pubblica di altissimo profilo quella di Vincenzo Scotti, che oggi 16 settembre compie 90 anni. Memoria storica lucidissima e protagonista in prima persona di tante e diverse vicende decisive della storia del nostro Paese. Vicende al centro di questa nostra conversazione nella sua abitazione romana.
Professor Scotti, partiamo dal suo incontro con Giulio Pastore. Un incontro per lei decisivo, perché Pastore la traghetta dal mondo accademico a quello sindacale e politico. Cosa accadde e cosa le ha insegnato Pastore?
Considero Pastore una delle grandi figure della Repubblica italiana. Per me certamente è stato un padre e un maestro. Con lui ho lavorato 3 anni in Cisl, 10 al Governo. Io vengo dall’Azione cattolica giovanile. Dalla mia città natale, Napoli, approdo a Roma nel 1952, a metà del percorso universitario. Nel 1954 c’è una crisi interna all’Azione cattolica tra Gedda e Carretto. Il mio gruppo lascia l’Azione cattolica. Ci sono tra gli altri Umberto Eco e Michele Lacalamita, poi presidente di Fimnare e dirigente Rai. Il cardinale Montini, futuro Papa Paolo VI, e De Gasperi negli ultimi mesi di vita ci avevano aiutato a completare gli studi. Pastore, anche lui un passato in Azione cattolica, ci contatta attraverso Vincenzo Saba. Mi portano ad un campo scuola in provincia di Salerno. Pastore mi dice: devi venire all’Ufficio studi della Cisl e occuparti di Mezzogiorno. Io avevo fatto la tesi di laurea su questo tema; ma avevo intenzione di completare gli studi economici negli Stati Uniti. Pastore insiste, mi racconta la Cisl: all’Ufficio studi ci sono Giugni, Archibugi, Merli Brandini, Romani è il responsabile. Mi convince. Viene creato un grande gruppo, del quale fa parte anche Franco Marini. Ne divento il responsabile dopo il passaggio di Vincenzo Saba al Centro studi di Firenze. Nel 1958 Pastore accetta l’offerta di Fanfani di entrare nel Governo. E mi fa andare con lui al ministero per la Cassa per il Mezzogiorno, dove sono stato fino al 1968.
Che anni sono stati per il Sud e il suo sviluppo? 
Sono stati anni straordinari. Pastore affronta il tema del Mezzogiorno con tre scelte strategiche. Già alla Cisl aveva chiamato a collaborare con lui personalità di tutte le grandi aree culturali del Paese e lo farà anche al ministro del Mezzogiorno: a partire dal gruppo dello Svimez, del quale faceva parte Giuseppe De Rita. Un gruppo che diventerà la segreteria tecnica e poi la segreteria generale del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno. Pastore mi nomina segretario generale di questo Comitato. Quindi la prima scelta è quella degli uomini. La seconda scelta è quella strategica dell’industrializzazione: parlo anche di tutta la trasformazione agricola. Terza scelta: la formazione, formazione dell'uomo e della comunità locale. Crea il Formez, chiama Marongiu e Zoppi. Giannini elabora il primo rapporto sulla Pubblica amministrazione. Un’atmosfera straordinaria. Vivevamo in simbiosi, il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno era una vera squadra. Tutte le domeniche eravamo a casa di Pastore; e quando iniziava la buona stagione andavamo con tutte le famiglie nella sua piccola casa di Lavinio. Aveva peraltro un fortissimo senso istituzionale. Come dimostrano le sue dimissioni al tempo del governo Tambroni. Mette in campo anche i temi della scuola e dell’università: favorisce l’istituzione di diversi Atenei nel Sud. 
Insomma, industrializzazione e fattore umano si intrecciavano nella sua teoria e nella sua prassi.
Mi ha educato non solo dal punto di vista tecnico ma anche su come affrontare i problemi. Ad esempio: quasi ogni settimana da Ministro ci portava in una paese del Sud e dialogava, dialogava veramente, con la classi dirigenti locali. Importante anche l’incontro con Gabriele Pescatore, presidente della Cassa per il Mezzogiorno, che rappresentò anche una sorta di argine rispetto all’irruenza caratteriale di Pastore, che voleva confronti anche animati con i sui collaboratori. E chiedeva loro di avere rapporti con tutte le culture: non solo quella cattolica ma anche la liberale, la socialista, la comunista.
Quale è stato il contributo del sindacato, della Cisl in particolare, allo sviluppo del Mezzogiorno? 
La Cisl ha dato un contributo forte allo sviluppo del Sud e di tutto il Paese. Con l'orgoglio e la consapevolezza del proprio ruolo. Un giorno Pastore chiede a Romani di organizzare un seminario di studio tra i dirigenti e i professori di diritto ed economia del lavoro. Decidono insieme che la sede dell’incontro fosse l’Accademia dei Lincei, indicando ai sindacalisti la necessità di guardare all’Accademia come luogo determinante del progresso umano; e agli accademici di guardare alla Cisl come portatrice di una cultura del lavoro con la quale misurarsi.
Nel 1983 lei è ministro del Lavoro e la notte tra il 22 e il 23 gennaio viene raggiunto l’accordo tra Governo, Confindustria e sindacati che porta il suo nome. Un accordo che portò ad un duro scontro politico e anche interno al sindacato, anche per il referendum voluto l’anno successivo dal Pci. Quale lettura dà oggi del merito di quelle vicende che sembrano antiche e sono invece attualissime? 
Beh, come noto nei primi anni ’80 l’inflazione galoppava. Nel 1982 a Palazzo Chigi arriva Fanfani che mi nomina ministro del Lavoro e mi chiede di lavorare ad un accordo anti-inflazione. Al Presidente dico: sono pronto, ma lei mi deve garantire alcune cose (anche al capo dello Stato in privato si poteva dare del tu, ma a Fanfani si dava sempre del lei …). E cioè: reale capacità decisionale, portare al tavolo di trattativa i Ministri interessati, perché il problema particolare dell’inflazione si risolve se viene risolto il problema generale dello sviluppo. Infine la costituzione di un gruppo di lavoro: Tarantelli, Valcavi, Giugni, Trentin. Fanfani si è comportato in modo impeccabile. Io lo informavo e lui mi diceva: se questa è la strategia, vai fino in fondo.
Allo stesso tavolo non ho mai fatto sedere assieme imprenditori e sindacati. Dopo 16 giorni di trattativa, offro il mio lodo. Nella direzione del Pci si apre un conflitto. Io allora dico alle parti: l’accordo deve servire nel tempo, vi faccio allora una dichiarazione volutamente ambigua sui punti di decimali riferiti agli aumenti salariali. E cioè: se dopo l’accordo l’inflazione resta alta, Confindustria non pagherà i decimali e li metterà alla fine dell’anno; se invece scende paga i decimali. Lama fa sapere: non posso prendere impegni senza aver sentito la direzione del Pci. Carniti rifiuta ulteriori approfondimenti perché non voleva e non poteva sottoporsi alle decisioni del Pci. 
Nel frattempo scoppia una seconda grana in Confindustria. Il Presidente Merloni mi dice: vogliono che io non firmi, andrò al mio consiglio direttivo e dirò che firmo e mi dimetto immediatamente. Allora io vado a cena con Merloni in un ristorante davanti al ministero di Via Flavia. La Cgil era ancora in riunione. Risaliamo nella mia stanza, arriva una telefonata in batteria, Agnelli vuole parlare con Merloni. Che si fa negare: lui sta in barca a divertirsi, io in trincea, e mi vuole incastrare. Agnelli viene a sapere dal vicedirettore Annibaldi che Merloni era nella mia stanza. E fa sapere: aderiamo perché i decimali non vengono pagati, il Ministro si è impegnato in questo senso. Scoppia una bufera perché in realtà il negoziato era molto più ampio. Successivamente Lucchini diventa presidente di Confindustria e chiama Merloni: tu mi hai detto che il Ministro era d’accordo, dove sta il pezzo di carta che lo prova? Merloni gli risponde: nella cassaforte della stanza del presidente. Aprono e quel pezzo di carta altro non era che il conto del ristorante della cena tra me e Merloni.
Al di la del merito, quell’accordo fu l’inizio della concertazione che ebbe una stagione particolarmente intensa all’inizio degli anni ’90. Che giudizio dà di quegli accordi? E ritiene ci sia un futuro per la concertazione? 
La concertazione deve avere un futuro perché senza una capacità di coinvolgimento ampio delle parti sociali lo sviluppo non è possibile. E ne sarà protagonista chi come la Cisl si è sempre misurato con la politica, con la classe dirigente del Paese. Non solo negoziando, ma volendo partecipare alle decisioni di fondo del Paese. 
In questo senso va anche la proposta di legge presentata dalla Cisl sulla Partecipazione al lavoro, un’autentica riforma istituzionale ...
E che io condivido pienamente. C’è bisogno di grande flessibilità da parte di tutti. I processi di cambiamento di trasformazione dell’economia e dei rapporti di lavoro pongono di fronte a scelte strategiche. I bassi salari sono frutto della mancanza di un negoziato su salari e produttività. Il salario minimo di per sé non risolve. Centrale è la programmazione strategica, che però non vedo. Neppure nel Pnrr. Neppure sul Patto di stabilità.
Lo stesso vale per le riforme istituzionali, ne abbiamo fatte tante, nessuna davvero organica è andata in porto perché non sappiamo qual è l’obiettivo. Non è un problema di efficientismo; la questione vera è il bilanciamento dei poteri. 
Voltiamo pagina, Professore. Dal 1990 fino al 28 giugno 1992 lei è stato ministro dell’Interno. In questo ruolo ha tra l’altro istituito la direzione investigativa antimafia, ha promosso molte leggi contro la mafia. E ha vissuto la strage di Capaci. Cosa accadde in quegli anni e in quegli successivi? La vicenda della trattativa tra stato e mafia si è processualmente protratta per dieci anni, fino a pochi mesi fa. Qual è il suo giudizio?
Il problema principale è sempre stato quello di avere una linea di lotta alla mafia a tutto tondo. Anni fa insieme a Martelli sono stato invitato dalla Corte suprema degli Stati Uniti ad una sessione con tutti i giudici, il ministro della Giustizia, la Cia. Siamo stati in una stanza chiusa, non sono uscite notizie né fotografie. Erano estremamente interessati alla legislazione italiana, giudicandola la migliore, proprio perché coordinata. La legge sul 41 bis l’ho scritta io con Martelli: non serviva e non serve, come qualcuno strumentalmente dice oggi, ad affliggere una pena ulteriore; ma a spezzare il collegamento tra dentro e fuori il carcere. La guerra alla mafia è una guerra internazionale. Se voglio vivere tranquillo, abbasso la tensione e così forse evito le stragi. Questa non è una trattativa, il termine è sbagliato: è una linea politica, legittima ma che non condivido. Perché questa, ripeto, è una guerra, con tanti ragazzi che muoiono per la droga. E chi dà loro la droga? 
Il 90% dei processi per mafia finivano con l’insufficienza di prove. Nel 1986 il Maxiprocesso di Palermo: 19 ergastoli in primo grado. Ma nel 1991 la Corte di Cassazione rimette in libertà 40 imputati per scadenza dei termini di custodia cautelare. Falcone mi dice: Ministro, io così chiudo bottega, Vado dal presidente della Repubblica Cossiga e dico: i mafiosi stanno trasferendo ai picciotti il messaggio che lo Stato è debole. Non possiamo accettare una cosa del genere. Propongo a Cossiga e Martelli un decreto legge per l’interpretazione autentica del calcolo dei tempi della carcerazione preventiva. Cossiga mi dice: Enzo, io metto una mano sopra il decreto, non leggo e firmo, perché questo è un mandato di cattura per decreto legge. Va detto che in quell’occasione il presidente del Consiglio Andreotti ci ha dato una mano straordinaria. Insomma, ero e sono per la linea dura. La mafia va affrontata come sistema. Così come vanno considerati come sistema e non come fatti criminali singoli le vicende di terrorismo, da Piazza della Loggia, a Moro, alla stazione di Bologna. Ci sono sempre un fine da ricercare e un contesto da considerare, legato alla collocazione geopolitica dell’Italia.

Giampiero Guadagni
 

( 15 settembre 2023 )

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