Mercoledì 4 dicembre 2024, ore 4:49

Il caso 

Emanuela Orlandi, quella pista abbandonata 

La vicenda di Emanuela Orlandi è una storia infinita.
Infinita nel tempo: i 40 anni trascorsi sono uno spazio vuoto incancellabile nella vita di una comunità. Per la famiglia quel numero, 40, va moltiplicato per i 365 giorni di ogni anno e per le 24 ore di ogni giorno e notte; e il totale dà la cifra di un'angoscia incommensurabile e inesprimibile.
Una storia infinita nei depistaggi, nelle trame e nell'ordito.
Infinita nei possibili moventi e nei probabili intrecci di moventi e di segnali obliqui.
Negli ultimi tempi la storia di Emanuela – la cittadina vaticana, figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia, scomparsa nel nulla il 22 giugno 1983 – si è fatta sempre più causa ed effetto di un progressivo, risentito distacco di una parte della nostra società dalla Chiesa cattolica; e ancor più da quel fazzoletto di terra di mezzo chilometro quadrato che è la Città del Vaticano. In un contesto di inchieste su scandali finanziari e abusi sessuali, appunto soldi e sesso sono le piste attualmente più battute e considerate dal fratello Pietro, dalla sua legale Laura Sgrò e dal ristretto gruppo di giornalisti d'inchiesta attualmente più vicini a Pietro.
Nelle ultime settimane in Italia è stata istituita una Commissione parlamentare d'inchiesta alla Camera (al Senato la proposta di legge va ancora approvata); in Vaticano, su input di Papa Francesco e del segretario di Stato Pietro Parolin, il promotore di giustizia Alessandro Diddi ha riaperto l'indagine.
Nei giorni scorsi Pietro Orlandi è stato ascoltato per otto ore di fila da Diddi. Ha consegnato documenti, nomi di persone che a suo giudizio hanno avuto un ruolo o sono a conoscenza dei fatti; e a caldo ha riferito di aver trovato molta disponibilità nel fare chiarezza a 360 gradi. Da molto tempo Pietro lega la vicenda della sorella alla pedofilia di altissimi prelati. Da qualche tempo riferisce con insistenza voci che coinvolgono anche Giovanni Paolo II. Lo ha sottolineato in tv anche dopo il lunghissimo colloquio con Diddi, per poi ridimensionare la portata di questa ipotesi a seguito di diverse reazioni del mondo cattolico e soprattutto dopo le poche ma perentorie parole di Papa Francesco che al Regina Coeli di domenica scorsa ha definito quelle voci “illazioni offensive e infondate”.
La traversata nel deserto delle indagini
Pietro ha percorso finora diverse strade per raggiungere la verità sul destino della sorella, raccogliendo il testimone dal padre Ercole, morto nel 2004. La sua e quella della sua famiglia è stata a lungo un'autentica traversata nel deserto in mancanza di serie indagini, comprese quelle giornalistiche. La vicenda riemergeva carsicamente ma annebbiata da approssimazione, da non detti o da detti per dire altro. Pietro e la sua famiglia sono stati dentro una 500 in una gara di Formula 1 sotto la pioggia battente, dietro la safety car che orienta nella direzione che vuole, rallenta, frena, ruba la strada davanti. Con la disperata necessità di rimuovere i detriti da tutte le piste e andare libero e a pieni giri.
L'attuale esasperato approccio di Pietro non può semplicemente essere giudicato, va anche contestualizzato con riferimento a quella lunga traversata.
Tutti noi che si occupiamo di comunicazione, non solo vaticana, dobbiamo riconoscere di non aver raccolto in questi decenni con la dovuta attenzione umana e professionale il grido di una famiglia. E anche di non aver colto, o almeno cercato, il senso più ampio di questa vicenda.
Da parte sua Pietro dovrebbe riconoscere la sforzo di chi invece ha tenuto costantemente accesa la fiammella quando le indagini brancolavano nel buio e il sonno dell'opinione pubblica cominciava a generare il mostro dell'oblio. Fabrizio Peronaci, cronista del Corriere della Sera, segue da sempre con passione la vicenda e per anni è stato a fianco di Pietro con il quale nel 2010 ha scritto il libro “Mia sorella Emanuela”. Un rapporto che ha iniziato ad incrinarsi quando nel 2013 (subito dopo l'elezione di Papa Francesco) è apparso sulla scena Marco Fassoni Accetti: personaggio per moltissimi versi inquietante, che si è autoaccusato tra l'altro di aver partecipato alla scomparsa di Emanuela e prima ancora di Mirella Gregori. Accetti è l'uomo che ha fatto ritrovare il flauto di Emanuela (unico oggetto della ragazza riemerso dal passato), immediatamente riconosciuto dalla famiglia Orlandi, anche se poi la prova del Dna non è stata in grado di dare un responso definitivo. Nella sua ricostruzione complessiva, Accetti – in un vorticoso mix di ipotesi e di riferimenti concreti e inediti ad altri casi – ha anche fatto allusioni a possibili ricatti di cui era stata vittima la famiglia Orlandi anche prima della scomparsa di Emanuela. La reazione di Pietro è stata ed è durissima, anche nei confronti di Peronaci, che come giornalista ha il diritto-dovere di dare spazio (cosa diversa dal credito incondizionato) all'uomo del flauto, nella speranza di aggiungere nuovi tasselli ad un racconto ancora tutto da accertare (anche perché la Procura di Roma non ha voluto rinviare Accetti a giudizio); così come ha il diritto-dovere di preservare le sue fonti, che potrebbero non essere le stesse del fratello. Le due strade sono naturaliter diverse, ma il traguardo è lo stesso.
Il racconto di Accetti fa perno su fazioni contrapposte e su codici, fondamenti delle regole d'ingaggio nella Guerra fredda (una guerra non solo virtuale, purtroppo). E quando Emanuela scompare, nel 1983, il mondo è appunto immerso in quella logica, con i due blocchi – Nato e Patto di Varsavia – nati dall'accordo di Yalta del 1945, che si sfidano e al tempo stesso si sostengono perché quell'accordo è la ragione dei rispettivi poteri interni. Chi prova a mettere in discussione quell'equilibrio sarà ostacolato da entrambi i blocchi.
Se a qualcuno, a questo proposito, vengono in mente Aldo Moro e quei drammatici 55 giorni della primavera 1978, quel qualcuno potrebbe anche non sbagliare.
La guerra fredda, controlli e delazioni
Il contesto internazionale è stato inizialmente centrale anche nel caso Orlandi. Questa centralità è sempre più sfumata, fino alla quasi irrilevanza. E non è chiaro se per questa pista siano venuti meno i riscontri o soltanto l'interesse a percorrerla.
Andando a trovare la famiglia Orlandi, nel Natale 1983, sei mesi dopo la scomparsa di Emanuela, Giovanni Paolo II fu chiaro: questo è un caso di terrorismo internazionale.
Parole pesanti. E non casuali, se si riavvolge il nastro della storia.
Quando nel 1978 Karol Wojtyla viene eletto Papa, la documentazione che lo riguardava – trasmessa dai Servizi di sicurezza della Polizia segreta polacca al Ministero dell'Interno di Varsavia – riempiva 18 scatoloni. I primi segnali di interesse del regime comunista risalivano addirittura al maggio 1946: epoca in cui, ventiseienne, Karol era studente di teologia nel seminario dell'arcivescovado di Cracovia. Un'attenzione, quella dei Servizi segreti, via via crescente con l'aumentare delle responsabilità e della popolarità. All'inizio degli anni '60 viene costituita addirittura una struttura, il “Gruppo F”, designata alla sorveglianza costante del vescovo Wojtyla. Una sorveglianza che non si limita alla dimensione pubblica ma si estende alla sfera privata, ovunque e in ogni ora del giorno. Il materiale d'archivio diventa particolarmente corposo a partire dal 28 giugno 1967, giorno in cui Wojtyla viene nominato Cardinale. Dai funzionari della Polizia segreta polacca è considerato “un avversario ideologico particolarmente pericoloso”. Al tempo stesso traspare una ammirazione per “uno dei vescovi più intelligenti, dotato di razionalità e di giudizio sicuro”. Quanto alla vita privata “è socievole, diretto e modesto... Non bada più di tanto ai valori materiali”. Annotazione questa sulla quale oggi vale la pena soffermarsi a riflettere.
Controllo e delazione sono quotidianamente dietro l'angolo. Wojtyla ha anche a che fare con i cosiddetti “preti patrioti”, talpe del governo che diffondono disinformazione all’interno della Chiesa e raccolgono informazioni su chi ne fa parte, in particolare sulle inclinazioni sessuali. Non riescono a colpire direttamente Wojtyla, riempiono allora il suo tavolo di dossier anonimi su preti della sua diocesi.
Naturalmente, l'azione di vigilanza si intensifica una volta eletto Papa con il nome di Giovanni Paolo II. Lo sguardo dei Servizi è particolarmente vigile in occasione dei viaggi in Polonia del 1979, del 1983 e del 1987.
Subito dopo l'elezione A Mosca i capi del Politburo, l'ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista, stilano un documento nel quale tra l'altro si dice: “L'elezione a Papa di un cittadino di un Paese socialista causerà nei prossimi tempi la crescita della religiosità nei Paesi socialisti … Non è escluso che sotto la sua guida la Chiesa presterà all'Occidente argomenti morali per la campagna dei diritti dell'uomo nei Paesi socialisti”. Il Politburo dà ordine all'ambasciatore sovietico in Polonia di presentarsi al comitato centrale polacco a Varsavia al primo segretario Edward Gierek e riportare a sua volta l'ordine del segretario generale del Partito comunista dell'Urss Breznev: impedire al Papa di mettere piede in Polonia. Missione che si rivela impossibile: il 2 giugno 1979 Karol Wojtyla arriva a Varsavia per il suo primo trionfale ritorno in Patria. E al momento del saluto dice: “Questo evento senza precedenti è indubbiamente un atto di coraggio di ambedue le parti. Tuttavia ai tempi nostri un tale atto di coraggio è necessario. Bisogna avere il coraggio di camminare nella direzione nella quale nessuno ha camminato finora”.
Il primo luglio 1980, in seguito ad un nuovo aumento dei prezzi, alcuni reparti delle officine Ursus vicino Varsavia sospendono i lavori. Gli scioperi cominciano ad estendersi a macchia d'olio. Finché la contestazione mette radici e assume un carattere permanente: ai cantieri Lenin di Danzica viene indetto uno sciopero contro il licenziamento di un'operaia con vent'anni di anzianità di servizio. A organizzare la protesta è l'elettricista Lech Walesa, esponente tra i più noti del sindacato clandestino. Sui cancelli appare un quadro della Madonna Nera di Częstochowa
e un ritratto del Papa polacco. Tra le immagini di quell'estate, gli operai in ginocchio sul selciato a confessarsi e poi ricevere la Comunione. Il 31 agosto la firma dell'accordo a Danzica: con il riconoscimento dei sindacati autonomi e la garanzia del diritto di sciopero. Nasce così ufficialmente Solidarnosc. Ma Mosca, che aveva permesso quel protocollo nella speranza di spegnere le agitazioni, si accorge ben presto che il clima stava cambiando e si rende conto che Solidarnosc è una mina vagante nel blocco comunista.
Il 13 maggio 1981 l'attentato in Piazza San Pietro. Il 13 dicembre la proclamazione dello stato di assedio in Polonia, per evitare l'invasione sovietica: la legge marziale, che comporta anche la messa al bando di Solidarnosc, dura fino al 22 luglio 1983. È il colpo di coda del regime comunista nell'Est europeo. Da metà anni '80 Gorbaciov cambia la politica di Mosca, nel 1989 cade il Muro di Berlino, l'anno dopo si chiude dopo 73 anni la storia dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.
Riscontri o coincidenze?
Nel 1983 la seconda visita di Giovanni Paolo II in Polonia: inizia il 16 giugno, termina il 23 giugno, il giorno dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi. E in quei giorni accade altro, protagonista Ali Agca, L'attentatore turco del Papa, dopo l'arresto aveva dichiarato di aver fatto tutto da solo quel 13 maggio 1981. Il 22 luglio la sentenza di primo grado lo condanna all'ergastolo. Il lupo grigio, curiosamente, non fa ricorso. Se gli era stato garantito un aiuto in cambio del silenzio, beh quell'aiuto non era ancora arrivato. Nell'aprile 1982 Agca cambia versione, comincia a parlare di complici, quella che sarà nota come la “pista bulgara”: ci sono verifiche a arresti. Ma il 28 giugno, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela, Agca comincia a ritrattare. Una semplice coincidenza? O quella scomparsa è il segnale che la promessa sta per essere mantenuta: lo scambio tra la grazia all'attentatore e la liberazione della ragazza? Può essere di sostegno alla seconda ipotesi un servizio che compare sul quotidiano romano “Il Tempo” il 25 giugno. L'articolo racconta il contenuto di una lettera spedita da Alì Agca al cardinal Silvio Oddi nel settembre 1982: “Sono un terrorista pentito. Vedremo cosa succederà in futuro. Ho scritto anche ad Agostino Casaroli. Spero che qualcuno mi risponderà dal Vaticano”.
I magistrati che a quel tempo indagano, Martella e Imposimato, sono convinti del legame tra le scomparse di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi e la grazia per Agca. Nel caso di Mirella la pressione è nei confronti del Presidente Pertini: solo il Capo dello Stato italiano avrebbe potuto concedere la grazia. C'è una lettera timbrata “Quirinale”, recapitata alla signora Gregori datata 21 giugno 1983: Pertini si interessò di Mirella prima che sparisse Emanuela, segno che i ricatti erano già iniziati. Nel caso di Emanuela la pressione è nei confronti del Vaticano. Il 3 luglio, soltanto 11 giorni dopo la scomparsa, Giovanni Paolo II durante l'Angelus pronuncia per la prima volta pubblicamente nome e cognome della quindicenne, condividendo “le ansie dei familiari” e facendo appello “al senso di umanità di chi ha responsabilità in questo caso”.
Ci sono altri elementi per dire che la scomparsa di Emanuela è stata una operazione premeditata e complessa. A partire dall'allarme lanciato dal capo dei Servizi segreti francesi su possibili rapimenti nelle Sacre mura. In effetti nelle settimane precedenti due coetanee di Emanuela residenti in Vaticano erano state pedinate e poi scartate in quanto i familiari ottennero una sorveglianza speciale.
Oggi di tutto questo non si parla quasi più. Ci si concentra su altro. Oltre 30 anni dopo il crollo dei regimi comunisti in Europa, 18 anni dopo la sua morte, la memoria del Papa polacco proclamato Santo viene imbrattata in patria con la pubblicazione di un libro che ipotizza la copertura di preti pedofili sulla base di documenti dei Servizi segreti degli anni '70. Ed è naturale chiedersi come mai queste accuse non siano state mosse Wojtyla vivo. Forse semplicemente perché non stavano in piedi davanti ad un gigante della storia e della fede.
Anche chi non guarda alla storia con gli occhi della fede, anche chi non è affetto da complottismo, può sentirsi autorizzato a pensare che i mandanti che non sono riusciti – per caso fortuito o per miracolo – a far uccidere fisicamente Giovanni Paolo II il 13 maggio 1981, si sono dedicati immediatamente ad una operazione più complessa e raffinata: uccidere la sua reputazione. Operazione alla quale non sembrano estranee voci senza alcuna credibilità o inverificabili a proposito del caso Orlandi, fatte vigliaccamente circolare anche attraverso chi soffre più di tutti e più di tutti cerca la risposta alla propria prolungata sofferenza. Voci che gettano fango non solo su Karol Wojtyla ma sulla Chiesa intera. Contro la quale troppi processi virtuali hanno pronunciato la sentenza senza appello di colpevolezza. Se un giorno verrà dimostrato il coinvolgimento di alcuni uomini di Chiesa, quelle responsabilità non potranno che essere personali.
In attesa di solide prove contrarie, nessuno può considerare l'istituzione Chiesa complice nella vicenda di Emanuela e della sua famiglia. Una storia, anzi “la” storia, infinita nel tempo e negli intrecci. E che ha il diritto di vedere scritta la parola fine.
Giampiero Guadagni

( 18 aprile 2023 )

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