Sabato 20 aprile 2024, ore 3:06

Vaccini

Il caos Astrazeneca e il senso di responsabilità che ci manca

Ecco ci siamo riusciti: dovevamo correre per fare più vaccinazioni possibili, per raggiungere una posizione “degna” che ci distinguesse tra tutti i Paesi europei e ce l’abbiamo fatta. L’Italia ora è il secondo Paese in Europa come numero di vaccini somministrati, eppure nonostante questo primato non c’è la soddisfazione che dovrebbe respirarsi in questi momenti. Il motivo? Avere scelto una strada piena di ostacoli e contraddizioni, che attribuisce all’Italia anche un altro primato, quello dell’approssimazione e della superficialità. Il balletto delle contraddizioni ha preso il via quando si è incominciato a parlare di vaccini buoni e vaccini meno buoni, di vaccinazioni a tutti o solo alle categorie fragili, di Astrazeneca sì o Astrazeneca no. 
Fin dall’inizio il caos ha regnato sovrano: mentre il generale Figliuolo diceva “Vaccinate prima gli anziani e i fragili” le Regioni rispondevano a loro comodo e secondo i propri dettami. A voler guardare meglio, però, i problemi erano iniziati molto prima, quando si era cominciato a parlare di Astrazeneca, un vaccino creato anche grazie al contributo italiano, quello stesso vaccino che, secondo alcuni, l’Italia avrebbe dovuto sponsorizzare meglio invece di lasciare l’esclusiva al Regno Unito e, di conseguenza, ai laboratori dello Jenner Institute dell’Università di Oxford e dell’Oxford Vaccine Group. Non solo: da un esperimento “sbagliato” era stato financo scoperto che al vaccino a vettore virale, approvato dall’Ema dopo quelli di Pfizer-BioNtech e di Moderna, sarebbe bastata mezza dose per avere gli effetti benefici contro il Covid-19, a differenza degli altri due vaccini a Rna messaggero, per i quali invece era necessaria la dose intera. 
Giorni, settimane, mesi a disquisire sulla validità di mezza dose o di una dose intera di un vaccino che, seppur tradizionale, si era dimostrato capace di combattere il nuovo male che ci ha investiti, devastando e stravolgendo le nostre vite. Bastava questo a confonderci? Macché, era soltanto l’inizio! 
Per non farci mancare nulla, si cominciò con la storia delle fasce d’età per le quali questo benedetto Astrazeneca si sarebbe dovuto usare. Di fronte ai rari casi di trombosi del seno cavernoso riscontrati a seguito dell’uso del vaccino prodotto dalla Irbm di Pomezia, si decise inizialmente di riservarlo ai soggetti di età compresa tra i 18 e i 55 anni, mancando ancora dati sulla sua efficacia tra le fasce più anziane della popolazione. Si cominciò, quindi, con la sua destinazione a forze armate, personale scolastico, personale carcerario e detenuti, ma poco dopo la fascia d’età di somministrazione venne modificata con una circolare del ministero della Salute del 22 febbraio che innalzò da 55 a 65 l’età di chi poteva riceverlo. Una misura che andò avanti fino all’8 di marzo, quando si decise di somministrarlo anche agli over 65, escludendo sempre i più fragili. Cominciarono, però, a verificarsi anche in Italia i primi casi sospetti di trombosi, soprattutto donne e, in particolare, di età compresa tra i 25 e i 65 anni e allora, giù, il panico totale. 
Nessuno era in grado di fornire dati precisi, solo notizie buttate lì, senza un’indicazione chiara, lasciando tutti in balìa delle informazioni raccattate un po’ qua e un po’ là, principalmente dai talk in tv, dove ovviamente imperversavano i soliti immunologi/infettivologi presidenzialisti che facevano a cazzotti per guadagnarsi il consenso maggiore e sperare di essere invitati al prossimo programma di intrattenimento, senza capire o rendersi realmente conto che ogni parola detta o taciuta avrebbe potuto influenzare l’opinione pubblica, anche in maniera devastante.
Si arrivò, infine, alle “raccomandazioni” dell’Ema, che fu in grado solamente di consigliare l’uso del vaccino Astrazeneca (che da quel momento si chiamò Vaxzevria) nei soggetti di età superiore ai 60 anni.
Da allora si è andato avanti così, senza una regola certa, fino a quando ogni Regione, in ordine sparso, ha deciso di aprire le porte agli “Open Day”, una specie di corsa a chi arrivava prima, a chi riusciva a dimostrare di essere il più bravo, facendo in modo che anche noi corressimo per arrivare primi al traguardo, liberarci dal rischio di ammalarci e tornare finalmente alla vita, messa in standby da troppo tempo. È stata questa la strada scelta dall’Italia, dal Paese che aveva riconosciuto l’incapacità del precedente governo nella gestione della pandemia e allora aveva deciso di cambiare, di affidare la guida del governo a Mario Draghi, confidando nel miracolo e nelle sue capacità indiscusse per risollevare le sorti di un Paese stordito e suonato come un pugile alle corde. 
Ora, però, si comincia a rivedere la luce. Certo, una luce che chiarisce tutto, anche le cose che non sono andate per il verso giusto, così come accade anche nelle migliori famiglie. Anche sotto la guida di Draghi il nostro Paese ha continuato a sbagliare e il caos Astrazeneca ne è la dimostrazione. Non si è stati in grado di prendere una decisione definitiva, soprattutto dopo le mancanze dell’Ema e dell’Aifa, incapaci anch’esse di stabilire se Astrazeneca fosse sicuro e per quali fasce d’età. Si è lasciato tutto all’improvvisazione, del ministero della Salute e del Cts prima, e delle Regioni poi, rimanendo nella trappola che contraddistingue questo Paese: non volersi assumere le proprie responsabilità. Si è sempre giocato al rimpallo, come se le vite o anche le scelte in materia di salute fossero cose di poco conto, perché l’importante alla fine è correre, raggiungere i primati, infischiandosene di chi resta indietro perché si è fidato troppo di chi avrebbe dovuto dare un’indicazione certa, magari anche impopolare, ma sicuramente utile, soprattutto a dimostrare, per una volta almeno, di possedere qualcosa che oramai sembra smarrito e che, invece, dovrebbe caratterizzare l’operato di chi ci rappresenta e ci guida, o almeno dovrebbe farlo: il senso di responsabilità. 

Anna Taverniti

( 11 giugno 2021 )

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