Venerdì 19 aprile 2024, ore 14:22

Intervista

Lotta armata, la legge speciale del perdono

di Giampiero Guadagni

Il merito di questo libro è di aver avuto il coraggio di alzare il velo sui conflitti della nostra storia. In tanti anni dalla morte di mio padre nessuno si è interessato del dolore che rimane da una parte e dall’altra, quando si chiude un conflitto”. Parole di Agnese Moro, in occasione della presentazione del libro di Angelo Picariello ”Un’azalea in Via Fani”( San Paolo edizioni, 344 pagg. 25 euro).

Il lavoro di Picariello, giornalista quirinalista di Avvenire, frutto di una ricerca curata dall'Istituto di Studi Politici S. Pio V, innaffia senza risparmio di energie quella pianta, con l’insopprimibile esigenza di una memoria il più possibile condivisa.

Il libro è diviso in capitoli: Piazza Fontana, la morte del commissario Calabresi, l’azione di Prima Linea, la storia completa delle Br e le dinamiche proprie del terrorismo di destra.

Contiene il racconto delle radici comuni fra movimenti cattolici e futuri brigatisti a Milano, nel quartiere romano di Centocelle, a Reggio Emilia.

Poi la scoperta della fede per molti terroristi, una volta usciti dal carcere, o l’impegno nel volontariato.

Un percorso difficile, fatto di testimonianze, racconti ed esperienze personali.

E’ certa Agnese Moro che suo padre avrebbe approvato questo cammino di riconciliazione e il fatto che ”queste due realtà ex giovani feritesi reciprocamente, possano oggi incontrarsi e sanare qualcuna di quelle ferite”.

Picariello, nel tuo libro racconti storie di terrorismo e di redenzione. Il pensiero corre subito ai funerali di Vittorio Bachelet nel 1980, con la preghiera del figlio Giovanni che in chiesa indicò con forza il perdono come strada necessaria anche con riferimento a chi aveva appena ucciso il padre. Una strada faticosa: quanta ne è stata fatta in questi anni in questa direzione?

La famiglia Bachelet è arrivata al momento dell'omicidio di Vittorio, vice presidente del Csm e presidente di Azione Cattolica, quasi con le istruzioni per l’uso su come comportarsi in un caso del genere: troppe volte avevano assistito ad episodi analoghi in tv e avevano visto la reazione del padre, interiorizzando quell'esigenza di reagire uniti, andando a fondo della questione senza imprecare istintivamente contro le istituzioni che invece mai come in quei momenti vanno aiutate a non perdere la bussola. Quindi paradossalmente quella preghiera non aveva niente di emotivo legato alla drammaticità dell'evento; tanto invece di razionale e ragionevole nell’eseguire le ultime implicite volontà del padre. Il cammino fatto è tanto e poco allo stesso tempo. Tanto da parte di chi ha subìto questo dramma da parte di un numero di persone che non va guardata nella percentuale ma nella completezza dei percorsi fatti interiormente da uomo a uomo: perché quelli positivi sono individuali, quelli più perversi sono di massa. E’ la dinamica che vediamo anche oggi nei social. Ma gran parte dell'opinione pubblica non ne ha percezione. Ed è il fatto più drammatico. Io penso che già la vedova Calabresi, di fronte al primo omicidio politico di lotta armata, abbia indicato la strada del perdono. La strada della riconciliazione è stata seguita con tanto ritardo, ma quanto è stato significativo questo incontro a 50 anni di distanza da Piazza Fontana tra la vedova Calabresi e la vedova Pinelli.

Quale tra i fatti che racconti è quello che ritieni emblematico e sul quale vorresti richiamare l’attenzione del lettore ?

Quello che dà il titolo al libro, titolo che ho voluto con molta determinazione. A 35 anni di distanza, Bonisoli decide di andare sul luogo dove ha partecipato all'eccidio per portare un segno del suo dolore, appunto una piantina di azalea. Difficile convincere qualcuno dell'importanza di qualcosa se quel qualcosa non ha colpito te. Bonisoli mi ha scelto come unico testimone di quella visita. Ho ritenuto di poterlo pubblicare, perché oltre al cambiamento interiore in Bonisoli c'è stato un aumento di consapevolezza dettato dalla riconciliazione con le vittime: la consapevolezza che certe cose vadano raccontate alle giovani generazioni per non incorrere nello stesso errore di inseguire l'ideologia e perdersi il meglio dell'esperienza umana fatta di rapporti con gli altri da uomo a uomo.

La riconciliazione e il perdono esigono anche la verità. Secondo te Bonisoli e gli altri brigatisti l’hanno raccontata su quanto accaduto a Via Fani e nei 55 giorni del sequestro Moro ?

Nei rapporti con Bonisoli, Adriana Faranda e Alberto Franceschini - fondatore delle Br ma al tempo del sequestro in carcere da 4 anni - non ho maturato la convinzione che mi sia stato taciuto qualcosa. Mi hanno semmai dato l'idea di una organizzazione molto più sgangherata di quanto la leggenda gli voglia fare apparire. Forse ci sono stati livelli che hanno condizionato il corso degli eventi, ma la scelta di rapire Moro è stata più casuale di quanto si creda. Mi fa pensare il fatto che nel racconto di Bonisoli il rapimento sia partito da un elemento: Moro aveva una giornata molto complessa fatta di appuntamenti istituzionali, politici e accademici. Ma con un punto di partenza certo: la Messa mattutina alla Chiesa di Santa Chiara in Piazza dei Giochi Delfici. Nacque da questo la presa in considerazione di una rapimento meno a rischio di quello di Andreotti, già programmato. Insomma, non ho tratto la conclusione che siano stati manovrati, ma gestiti da livelli che fin dalla strage di Piazza Fontana osservavano il corso degli eventi con lo scopo di trattenere l'Italia nell'ambito dell’Alleanza Atlantica senza escludere un regime reazionario come in Grecia e in Cile.

Ma come iniziò il nostro Paese a voltare pagina dopo gli anni di piombo?

Una svolta importante l’hanno data le inchieste, quindi i pentiti come Peci e Savasta. Ma quello che ha contributo davvero a cambiare le cose è stata l'uscita a metà anni ’80 da una logica militare di un pentimento istituzionale. E le Br reagirono accentuando l'efferatezza dei loro atti. La vicenda non si sarebbe chiusa senza il ritorno all'alveo strettamente costituzionale della rieducazione del condannato con le leggi sulla dissociazione, sui permessi e lavori esterni. Con un parallelo cambio di passo delle istituzioni carcerarie.

A proposito, ci sono figure e gesti poco noti, che però hanno avuto una funzione essenziale nella storia che racconti: penso ad esempio a suor Teresilla ...

Suor Teresilla Barillà, insieme a padre Adolfo Bachelet - fratello di Vittorio - svolsero un’attività di intelligence carceraria, individuando ogni singola possibilità di conversione dei cuori. Ogni uomo dell'eversione che abbia maturato un cambiamento può dire di avere incontrato queste due persone. E’ un’opera fondamentale per la nostra Repubblica, un ruolo guardato anche con un po’ di sospetto, come una sorta di fiancheggiamento: invece svolto con grandissima coscienza evangelica in una cornice costituzionale.

In questi anni ci sono state molte occasioni in cui si è polemicamente dibattuto sul diritto di parola degli ex terroristi. Qual è la tua posizione?

Sono molto netto: il diritto di parola è una delle caratteristiche del recupero della persona. Il punto vero è se queste persone hanno completato il percorso che la nostra Costituzione impone. Quello che hanno da dire è importante per le nuove generazioni. È un diritto, e anche un dovere. C'è però chi ha soprattutto nostalgia di un'epoca che non ha sortito gli effetti sperati: il problema è che questi non sono davvero ”ex”. Franceschini in una intervista mi ha detto: se siamo persone diverse è perché siamo persone. E’ una risposta che tira fuori da un doloroso cambiamento una prospettiva di speranza.

Come tu stesso racconti, il tuo viaggio tra e con gli ex della lotta armata parte nel 1978 quando ti regalano il libro di Giorgio Bocca che parlava delle radici catto-comuniste del terrorismo. Quella tesi, spieghi, ti interrogò nel profondo, da studente cattolico che subiva come tanti al tempo il fascino dei progetti rivoluzionari. Alla fine che risposta hai dato a queste tue domande?

Quell'analisi di Bocca metteva il dito nella piaga, ma con una risposta sbagliata. C'è una cosa che mette assieme l’esperienza cattolica e quella eversiva. Di fronte ad un cattolicesimo fatto da regolette sganciate dalla quotidianità; e all'ideologia di sinistra fatta da cattivi maestri, ci sono stati cattolici e perone dedite ad impegno politico che sono andate al fondo delle loro posizioni. Se tra ex della lotta armata e tra un certo tipo di cattolicesimo integralista si è creata una certa sintonia, è perché si tratta di persone che pensavano che senza agire certe cose rimanevano astratte. In entrambi i casi pur con sbocchi molto diversi c'è stata la volontà di mettere in gioco la propria vita: tra i cattolici per un ideale positivo dedito al bene comune; a sinistra per un'idea sbagliata di giustizia assoluta.

Che differenza c’è, se c’è, tra un terrorista di estrema sinistra e uno di estrema destra nell’approccio alla lotta armata e nel successivo percorso di presa di distanza?

Questa è un domanda complessa ma ineludibile. E forse ancora priva di risposta. Mi risulta che anche esponenti della lotta armata di destra si siano incamminati su una strada di riconciliazione; ma sono casi più rari e soprattutto casi che faticano ad uscire allo scoperto. Pesa ancora il tema delle istituzioni deviate che hanno accompagnato le scelte eversive dei singoli. C'è una tendenza a tenere celato il proprio disegno eversivo, che da una lato copre di tante ombre il capitolo delle stragi; dall'altro rende più difficile tirare fuori la propria esperienza se legata ad una serie di connivenze e rapporti obliqui con istituzioni dello Stato deviate che credevano di agire in nome di principi politici propri della Guerra fredda. Mi colpisce il fatto che Manlio Milani, presidente dell'Associazione vittime della strage di Brescia, sostiene che un passo va fatto anche da parte delle vittime nell'ammettere che da ragazzi la loro militanza antifascista spesso è sfociata nel considerare la morte di una fascista come un episodio positivo. E’ una riflessione meritoria per sbloccare la situazione anche in quella direzione. E mi piace pensare che se a Brescia, a differenza di Piazza Fontana, si è arrivati ad una verità certa e definitiva, anche se dopo 40 anni, un contributo l’ha dato questa impostazione molto poco ideologica, mirata invece a trattenere la verità nella casa della memoria creata a Brescia, aiutando i magistrati ad andare oltre i depistaggi.

( 19 dicembre 2019 )

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