Giovedì 9 maggio 2024, ore 11:58

Dibattito

Per un cambiamento radicale delle politiche ambientali

Anni di inerzia amministrativa, o del suo contrario, negli interventi di ripristino, di manutenzione ordinaria e straordinaria, per la protezione e la tutela del territorio sono concause del cambiamento climatico, i cui disastri sono inequivocabilmente sotto gli occhi di tutti. Ne discutiamo con Mario Tozzi, geologo, saggista, divulgatore scientifico che da anni si impegna contro il degrado territoriale, da poco in libreria con Oltre il fango: una nuova visione per uscire da rischio idrogeologico” (Rai Eri) in cui ha elencato precise strategie per un cambiamento radicale delle politiche ambientali, improntate al rispetto degli ecosistemi e alla valorizzazione del capitale naturale.

Rinaturalizzare gli argini di un fiume, azzerare il consumo di suolo e promuovere interventi di riforestazione, contenere le emissioni di CO2e delocalizzare i cittadini a rischio. Le viene in mente un’area in Italia che potrebbe prestarsi all’applicazione concreta di queste strategie?

Beh, Ischia. Perché no, visto che è stata tanto danneggia. Potrebbe essere il posto giusto per questa nuova via.

Quanto accaduto in Toscana ci ha di nuovo messo di fronte all’urgenza di un’azione concreta. Oltretutto, proprio il comune di Campi Bisenzio (zona colpita dall’alluvione) è stato recentemente oggetto di un intervento di riforestazione attuato con i fondi del PNRR. Ritiene che le misure programmate dal PNRR, laddove applicate, siano sufficienti o dobbiamo continuare a considerare questi territori a rischio?

Questi territori vanno comunque considerati a rischio, perché questi interventi non bastano. Vi è di più, delle volte non sono nemmeno così utili. Non è che serve per forza la grande opera, in certi casi sarebbe meglio non farle per niente, le opere, sia perché ce ne sono già abbastanza sia perché, come si è visto, non aiutano a uscire fuori dal dissesto idrogeologico. In certi casi, naturalmente, sì. Si pensi a Genova. A Firenze, o al torrente Seveso a Milano, lì le opere servono, è evidente. Nei posti piccoli, dove l’intervento rischia di compromettere un equilibrio, sarebbe meglio non fare niente, perché possono peggiorare la questione. Certe volte più lasci in pace un fiume meno danni fa.

Ragionare di ambiente comporta considerare due questioni: complessità e durata. Il tema è strutturalmente interdisciplinare, quindi, complesso; d’altra parte, gli effetti dei comportamenti virtuosi della collettività saranno apprezzabili solo nel lungo periodo. L’ attitudine dell’uomo contemporaneo “smart and fast” può coincidere con la vita e il tempo degli ecosistemi? Come portare l’opinione pubblica a recepire questi principi e ad investire nel capitale naturale?

È una bella domanda! Questo è un po’ il punto. Se si recupera natura con metodi che apportano miglioria in un’area che prima stava in condizioni di dissesto idrogeologico allora si potrebbe trovare anche una ragione di memoria nello stare in un luogo che è stato abitato dai tuoi antenati. Se sono posti ben collegati, la rinaturalizzazione può essere una sfida per le realtà marginali, che in Italia sono soprattutto quelle dell’Appennino.

Il lavoro di bonifica industriale del Bacino della Rhur in Germania est è stato un esempio encomiabile di rinaturalizzazione territoriale. Non solo ha comportato benefici ecologici e migliorato visibilmente il paesaggio, ma ha anche rilanciato l’economia locale con la creazione di posti di lavoro e contrastato il fenomeno dello spopolamento, instillando nei residenti l’orgoglio di appartenenza. La riqualificazione è quindi un modo efficace per porre un freno allo spopolamento?

Sì, potrebbe esserlo, nel caso della Rhur è stato verificato. Pensiamo a quante realtà cosiddette marginali potrebbero trovare giovamento da una riqualificazione di quel tipo. Anche se la tendenza è andare via dalle zone che non hanno un’economia sviluppata. Se recuperi il degrado e lo trasformi in un volano, cosa fatta in Germania, magari sei portato anche a rimanere.

Si ritorna a parlare di Ilva. Ambiente e lavoro (turismo compreso) sono principi costituzionali. Come tenerli insieme in un posto che lei stesso definì “baciato dagli dèi”?

Sembrerebbe che Taranto non voglia più puntare su quel futuro industriale che un tempo era la sua destinazione e vorrebbe puntare sul recupero di altri settori del territorio per esempio i circuiti enogastronomici, il paesaggio, la sua grandissima archeologia la sua storia e le spiagge. Tutti aspetti oscurati dall’ingombrante presenza dell’Ilva. Per fare questo però devi produrre con significativi margini di sicurezza, e quindi, spendere molti soldi. Ci vuole una visione culturale diversa, i cittadini di Taranto dovrebbero iniziare a pensare a loro stessi in altri termini, non più dietro all’acciaio che necessariamente andrà diminuendo. Potrebbero, ad esempio, riconnettersi con le loro radici. Taranto era una colonia spartana con un patrimonio archeologico straordinario, che è rimasto nascosto e andrebbe recuperato. Gradualmente, anche l’Ilva potrebbe trasformarsi in una fabbrica che produce acciaio di grande qualità, solo per produzioni speciali, fatto in maniera ecologica ed alimentato per via rinnovabile. In Italia esiste un’acciaieria rinnovabile, vicino Vicenza. Queste solo le sfide che io trovo di grande imprenditoria, che scommettono su un futuro diverso…

Di grande impatto emotivo è stato il film Siccità di Paolo Virzì. Si parla molto poco di “crisi idrica”, forse perché l’idea che potrebbe mancarci l’acqua è quasi un’assurdità?

Sì, non ci sembra vero perché in linea di principio, l’Italia è un paese ricco di acque. Il problema nostro è che le abbiamo utilizzate e conservate male. Dovremmo essere bravi a conservare l’acqua nei momenti di grande pioggia per averla quando è scarsa. Questo noi un tempo lo sapevamo fare, in campagna i nostri nonni facevano i tetti delle case in modo da non sprecare l’acqua della pioggia che dal tetto appunto finiva in una cisterna. Non si usava per bere ma si usava per tutti gli altri scopi. Ci è sembrato progresso l’idea di non dipendere più da questo. Ma lo è davvero? Forse no.

Siamo il paese che detiene il record europeo delle frane, maggiore prevalenza al Sud. Il primato per Regione spetta alla Campania, dove la superficie vulnerabile per frane e alluvioni è pari al 50 %. L’Irpinia, terra di paesaggi suggestivi, è quasi tre volte all’anno oggetto di frane. Note sono anche le sue posizioni sul “paradiso perduto” di Ischia. C’è una responsabilità politica, anche regionale, sul tema?

Evidentemente sì. Quelli che amministrano sono coinvolti tutti, ma più che regionale è comunale. La responsabilità è dei sindaci che non vogliono privarsi di una loro grande entrate ciò le concessioni edilizie. C’è da dire che siamo all’interno di un sistema di amici e parenti, a cui è difficile dire di no. Ma questo ha portato i risultati che vediamo. Bisognerebbe avere un momento di stop netto di queste vecchie pratiche, basta costruire cose nuove, non ci serve, ne abbiamo tante!”

La desigillazione del suolo è un intervento vantaggioso per ritornare alla natura? Anche nelle porzioni di territorio più compromesse dalla cementificazione?

Certo. Recuperare pezzi di natura aiuta tutti a stare dentro limiti che non volevamo sostenere. È senz’altro utile a tutti. Il beneficio è nel medio-lungo termine, poiché s’incrementa anche il valore dei terreni. Non dimentichiamo che se un posto è più salubre e sicuro aumenta anche il valore “economico” di quel posto: Ciò potrebbe anche convincere i ragazzi a rimanere nelle aree marginali. Ma questo servirebbe anche nelle città che abbiamo visto sono particolarmente desolate nelle realtà periferiche che dovrebbero essere recuperate opportunamente.

Serafina Russo

( 8 dicembre 2023 )

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