Giovedì 9 maggio 2024, ore 19:41

Intervista

“Restanza è movimento e chiede nuovi diritti e servizi”

Prof. Teti, lei ha coniato il termine “restanza”. Qual è il significato, anche etico, di questo concetto? Restare è verbo attivo o passivo?
“Restanza” non è un neologismo: è attestato già nel Trecento, nell’accezione di “ciò che avanza”, “rimanenza”, “resto”, o di “permanenza”. Quando lo ho adoperato in accezione del tutto nuova nel 2011 (Pietre di pane, Quodlibet e, poi, ho scritto per Einaudi “La restanza” 2022), restare per me, in un libro di emigrazione, non poteva che essere un verbo attivo, che indica movimento, desiderio di cambiare le cose, ricerca di un altro “mondo”, nuovo senso dei luoghi e dell’abitare. Restare e partire sono due termini inseparabili, due scelte, due necessità, complementari, che hanno accompagnato la storia dell’umanità. Il mio intento è stato quello di rimarcare che si viaggia non solo con il corpo, ma con la mente, con le sensazioni, le emozioni, le rappresentazioni del proprio luogo. Nelle mie ricerche non do giudizi valutativi, non mi permetto di dare suggerimenti, ma mi soffermo sull’idea che sia il partire sia il restare comportino forme di spaesamento, d’inquietudine, di dispersione. A volte chi resta ad assistere al mutamento del mondo, giorno dopo giorno, è tutt’altro che pacificato, ma anzi è in esilio, sradicato, si sente fuori luogo e deve compiere, con dolore, con fatica una continua opera di appaesamento nel luogo che più gli è familiare e che gli diventa lentamente estraneo.
Questa parola assume un significato diverso in una città o in un piccolo centro di un’area interna?
Negli ultimi decenni il problema dello spopolamento delle aree interne, della montagna, al Sud come al Nord, è diventato più drammatico e più vistoso. Si tratta di un processo di erosione a volte intenso, che nel complesso sembra configurare una sorta di catastrofe dei luoghi, un’irreversibile desertificazione. Negli anni della pandemia i paesi sono velocemente riemersi dalla voragine della loro irrilevanza strategica, e a molti (spesso in maniera retorica, strumentale) sono apparsi come il contraltare perfetto alla confusione, alla folla, all’anomía della metropoli. La restanza è un aspetto qualitativo della vita di persone “resistenti”, di uomini e donne che ho incontrato nel mio cammino e che restano saldi in contesti in cui tutto sembra cadere a pezzi. La restanza va “politicizzata” perché chiede nuovi diritti, nuovi servizi, nuove opportunità per chi resta.
Restare e migrare sono due diritti. Come farli correttamente convivere? 
Il diritto di migrare non può essere separato dal diritto di restare come principio di libertà, non per isolarsi, ma per inscrivere la propria piccola patria nel cuore del mondo. Papa Francesco e la Cei negli ultimi tempi si sono pronunciati spesso sulla libertà di migrare e sul diritto di restare. Papa Francesco ha scelto di dedicare al tema l’ultima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. ”Liberi di scegliere se migrare o restare” recita il titolo che ha l’esplicita intenzione di ”promuovere una rinnovata riflessione su un diritto non ancora codificato a livello internazionale: il diritto a poter rimanere nella propria terra precedente, più profondo e più ampio del diritto ad emigrare”, perché riguarda ”la possibilità di essere partecipi del bene comune, il diritto a vivere in dignità e l’accesso allo sviluppo sostenibile attraverso un esercizio reale di corresponsabilità”.
Anche alla luce delle guerra in Ucraina e in Medio Oriente, va detto che una cosa è restare in tempo di pace, un’altra in tempo di guerra. Cosa spinge le persone a non fuggire anche quando la loro stessa vita e quella dei loro cari viene messa in pericolo?
Si resta muti, sgomenti, atterriti dinnanzi agli eccidi di innocenti, bambini, anziani a cui assistiamo quotidianamente. Diventa necessario contestualizzare, nel tempo e nello spazio, la libertà di migrare e il diritto restare, chi sono i soggetti che affermano questi diritti. Un conto è migrare per le crisi climatiche, le guerre, la fame, la sete; altro è spostarsi per turismo, per affari, per una mobilità che interessa pochi privilegiati ed élite economiche, politiche, intellettuali. Resistere, anche a costo di perdere la vita, può significare restare per difendere il proprio villaggio, la propria storia, la propria casa, che però dovrebbero diventare prigioni mentali, recinti chiusi, ma spazi da aprire, pacificamente, agli altri, quando pacificamente arrivano. Luoghi di accoglienza e di integrazione. Di pace.

Giampiero Guadagni

( 1 novembre 2023 )

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