Martedì 22 ottobre 2024, ore 5:03

Intervista

Sviluppo sostenibile, questione di governance

Direttore Sabella, in che modo e misura la pandemia, i cambiamenti climatici, la guerra in Ucraina stanno cambiando i rapporti economici internazionali e la globalizzazione nel suo complesso? È credibile pensare alla spartizione dei mercati tra affini?

Pandemia e guerra sono due acceleratori di una tendenza avviatasi quantomeno dal 2012 con il processo di back reshoring, ovvero col recupero delle attività produttive precedentemente delocalizzate. Non che in questi dieci anni tutte le industrie delocalizzate – in particolare nel mondo asiatico – siano tornare indietro, ma la globalizzazione ha chiaramente cambiato verso: dall’off shoring (delocalizzazione delle produzioni) al back reshoring. Ciò avviene dopo lo shock del 2008 e a seguito della crisi economica e sociale che investe l’Occidente dopo il crollo di Lehman Brothers. Ed è in questo momento che la globalizzazione comincia a vacillare: ricordiamoci che è del 2015 la crisi interna all’Organizzazione Mondiale del Commercio quando l’ambascia tore americano Michael Froman interviene al round di Doha (Qatar) dicendo “il commercio mondiale è morto”. Era come dire “la globalizzazione è finita”. In quel momento, c’è ancora Obama. Sarà poi Trump a esasperare questa tendenza, con il suo programma America First e con i dazi. Ma, come dicevo, si tratta di un processo che parte almeno dal 2012, quando gli Usa capiscono che hanno bisogno di tutte le loro risorse per far ripartire l’e conomia e per contrastare la grande potenza emergente, la Cina. Tutto questo, naturalmente, ha aperto una nuova stagione segnata da nuovi assetti – che riguardano i mercati come le catene del valore – e da nuove forme protezionistiche. E, anche, da crisi delle materie prime e da inflazione. Per quanto riguarda il mercato globale, il forte rallentamento degli scambi ha lasciato il posto alla macro- regionalizzazione dei mercati. E tutti i grandi Paesi – Usa, Cina, Ue – stanno lavorando per consolidare la domanda interna. La crisi climatica, d’altra parte, non è una novità ed è un’altra grande variabile che pesa su questa ridefinizione dell’ordine mondiale: basti pensare a quanti problemi può creare il superamento dell’oil and gas. Ci sono Paesi, nel mondo, le cui economie dipendono proprio dalle esportazioni dei combustibili fossili, la Russia è uno di questi. E non è un caso che sia in pericoloso fermento.

Il Green Deal è una risposta adeguata da parte dell’Europa alle trasformazioni in atto?

Si, il Green Deal è un grande piano. Ed è il primo vero intervento di politica economica della UEe Certo, andrà attuato e non è una cosa semplice. Ma l’aver condiviso questo programma è un merito importante delle istituzioni e dell’industria europea. Considerando che è stato presentato da Ursula von der Leyen al Parlamento europeo nel dicembre del 2019, si tratta di una risposta importante perché in primis è fondata sui nuovi assetti emergenti della globalizzazione – che all’epoca erano già evidenti – nonché su aspetti di innovazione digitale ed energetica che sono prioritari per la crescita economica. L’Europa vuole colmare il suo deficit di innovazione che è all’origi ne del rallentamento della sua economia. Per dare un dato, nel 2018 ci siamo resi conto che l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale sono stati realizzati da imprese americane e cinesi. Siamo meno in ritardo sul piano della transizione all’e nergia pulita, ma c’è ancora molto da fare.

Lo stop deciso dalla Ue ai motori termici nel 2035 sta provocando un forte dibattito politico. Il governo italiano ad esempio ha votato contro, preoccupato per l’impatto occupazionale. Quali sono allora le condizioni affinché la riconversione industriale – nel settore dell’auto e non solo – non crei conseguenze socialmente gravi?

La parte più cospicua degli investimenti dei grandi costruttori è da tempo indirizzata verso l’auto elettrica. Volkswagen, ad esempio, su 180 miliardi di euro di investimenti previsti per il 2023-2027 ne destinerà circa due terzi ai veicoli elettrici. Oliver Blume, ad del gruppo di Wolfsburg, dice che Volkswagen produrrà veicoli soltanto elettrici già prima del 2035. A dire il vero, la stessa cosa la dice Carlos Tavares, ad di Stellantis. Il destino della mobilità europea pare dunque deciso dai costruttori più che dal Fit for 55, il provvedimento con cui si è deciso lo stop del motore endotermico. Sono proprio i grandi costruttori a spingere per questi provvedimenti, temendo che le loro filiere non restino al passo. Tuttavia, la mia sensazione è che, in percentuale da stabilire, probabilmente sarà permesso di produrre motori anche con tecnologie diverse: penso all’i drogeno, al diesel di nuova generazione e ai biocarburanti, come chiesto anche dal governo tedesco. Vedremo se la Germania realmente vorrà queste alternative. Per l’Italia – più votata alla componentistica che all’auto – ciò potrebbe rendere più graduale la Transizione. Resta il fatto che, essendoci sullo sfondo una guerra tecnologica tra le grandi potenze del mondo, sono esclusi colpi di scena e cambi di rotta: l’elettrico è il futuro della mobilità.

Il Pnrr può davvero favorire un processo equilibrato di trasformazioni energetiche e digitali in Italia e in Europa?

Penso di sì. Si tratta di una possibilità di finanziamento molto importante per i Paesi europei. Tuttavia, considerando che l’introduzio ne del Next Generation Eu – da cui dipendono i vari Pnrr degli stati membri – risale al maggio 2020, ovvero a una fase che precede pur non di molto la crisi delle materie prime e la spirale inflattiva, convengo col governo italiano che ha chiesto flessibilità sull’utilizzo di questi finanziamenti. Anche perché, la mia sensazione è che faremo fatica a investire tutte queste risorse: la nostra scarsa capacità di progettazione è cosa nota.

Qual è il modello economico più funzionale per redistribuire la ricchezza e ridurre le diseguaglianze?

L’Agenda Onu 2030 e lo stesso Green Deal si richiamano al modello di sviluppo sostenibile. Per troppo tempo abbiamo pensato che la sostenibilità fosse qualcosa che ha a che fare soltanto con l’ambien te. Non è così ovviamente, la sostenibilità ha almeno tre dimensioni – economica, sociale e ambientale – ma si tratta di distinzioni che nella realtà contano fino a un certo punto: quali sarebbero i benefici di un mondo meno inquinato ma carico di disoccupati? La Transizione naturalmente ha dei costi economici e sociali, le dimensioni della sostenibilità devono procedere insieme. Voglio dire che più che una questione di modello di sviluppo – su cui dopo la crisi del 2008 c’è una convergenza forte di tutti i Paesi avanzati – vi è un problema di governance di un processo che è a complessità molto elevata.

Come giudica la proposta del salario minimo? In Italia, con una contrattazione che supera il 95%, può essere un beneficio o al contrario un danno per i lavoratori?

Circa l’adeguatezza dei salari, l’Europa ha chiesto agli stati membri di intervenire ma non ha chiesto necessariamente un intervento legislativo, anche perché 21 Paesi su 27 già hanno il salario minimo legale. Il punto è questo: i salari possono essere adeguati attraverso i contratti collettivi nazionali, laddove la loro copertura è superiore all’80% dei rapporti di lavoro. È, appunto, il caso italiano. E, peraltro, questa possibilità è maturata dentro le istituzioni europee proprio in virtù del caso italiano e della posizione forte e autorevole del nostro sindacato – in particolare della Cisl – tradizionalmente molto rispettato in Europa. Ogni Paese ha le sue specificità e credo che in Italia sia molto rischioso introdurre il salario mimo legale, per più ragioni: perché rischia di dare problemi alla contrattazione collettiva e, anche, perché può diventare oggetto di campagna elettorale. L’auto nomia collettiva va garantita. Diverso sarebbe, invece, estendere l’efficacia dei contratti collettivi più rappresentativi che, peraltro, sono quasi tutti sopra le soglie di cui si discute: questa è per me la soluzione più funzionale al caso nostro.

Giampiero Guadagni

( 27 marzo 2023 )

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