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Edilizia Industriale

Le architetture del lavoro

Se il trascorrere del tempo fosse relativo potremmo affermare che mai come oggi esso fluisce e si supera con una velocità sorprendente. Il secolo scorso, per alcuni aspetti, è già archeologia. Lo sono i primi calcolatori elettronici, i telefoni in bachelite e molti altri prodotti di una civiltà non molto distante da noi temporalmente, ma di fatto già ampiamente superata. E lo sono certe tipologie di fabbricati, oggi dismessi, che hanno ospitato la produzione industriale del Novecento. Cattedrali del lavoro che hanno custodito l’operare quotidiano della laboriosa società del passato. Sono cartiere, lanifici, opifici, manifatture, fornaci, stazioni ferroviarie, centrali idroelettriche e molto altro. I caratteri e le tipologie sono varie: ispirate alle morfologie edilizie preesistenti ma soprattutto dettate dalle imprescindibili ragioni di funzionalità ed efficientismo. Cemento, ghisa, ferro, vetro, acciaio accanto ai tradizionali laterizi, pietra e legno sono i materiali delle strutture destinate al lavoro. Gli ampi spazi dei padiglioni finalizzati alla collocazione di un numero crescente di macchinari assumono gradualmente una conformazione ragionata dettata sempre più da una volontà progettuale. La versatilità dei nuovi materiali, l’ampiezza delle superfici vetrate e la ricercatezza di motivi decorativi eclettici progressivamente introdotti nell’edilizia industriale conferiscono un’estetica dignitosa e a volte pregevole alle nuove strutture di lavoro che evoca anche gli intenti celebrativi delle nuove visioni imprenditoriali.

Tali manufatti, di cui abbiamo a tutt’oggi un numero rilevante di testimonianze in Italia come in altre parti d’Europa, costituiscono un’importante memoria storica sociale (quella del lavoro umano e dei suoi spazi) ma anche dell’architettura nei suoi differenti aspetti tecnico ingegneristici e storico artistici. La salvaguardia di tale patrimonio culturale è stato l’obiettivo di numerosi recenti interventi di recupero. Alcuni particolarmente felici, come quello romano della Centrale Montemartini ad Ostiense, uno tra i primi esempi di recupero archeologico industriale. Insieme ai sobri ambienti del primo impianto comunale di produzione elettrica sono stati preservati anche i suoi originari mezzi di lavoro. La nuova destinazione ad uso museale ha esplicitato la diversa finalità di utilizzo senza rinnegare con frammentazioni di spazi o contraddizioni di pertinenze, ma raccogliendo e mescolando in un affascinante insieme i gruppi di motore Diesel o i turbo alternatori a vapore (che nella notte del 30 giugno 1912 permisero di illuminare con luce elettrica un’ampia zona di Roma) con una serie di opere dell’arte romana che datano dall’età arcaica fino a quella tardo repubblicana.

Più recente, sempre nel contesto romano, l’esempio di recupero e di riuso degli stabilimenti della Birra Peroni collocati nel quartiere Salario. Pur rappresentando un felice intervento conservativo strutturale dell’interessante impianto originario, ne ha tuttavia parzialmente sacrificato le testimonianze legate al processo di produzione della birra. La nuova destinazione a spazio espositivo e culturale del Museo di arte contemporanea di Roma conferma ancora il positivo connubio tra ambiti di natura diversa. Che ricordano il più noto intervento dell’italiana Gae Aulenti nella nota riconversione della stazione parigina d’Orsay, struttura funzionale dalla raffinata estetica che segue il gusto e il decoro del primo Novecento, eletta a spazio museale. La volta in vetro e metallo, i grandi orologi sinuosamente incorniciati sulla facciata caratterizzano a tutt’oggi il monumento.

La composizione multidisciplinare degli interventi di tutela, conservazione e restauro delle più interessanti tipologie dei primi impianti industriali richiede il giusto equilibrio tra i vari campi d’interesse: le connessioni con il contesto urbano o paesaggistico in cui si collocano e le necessarie analisi e valutazioni economiche. Fattori pratici che possono spesso ostacolare un recupero corretto che fermi le forme dalla distruzione e la storia dall’oblio, assegnando un nuovo ruolo alle architetture del lavoro dismesse e nuovi ricordi alle storie dei lavoratori di un passato ancora presente.

Maria Lucia Saraceni

 

 

 

 

( 21 febbraio 2021 )

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