Si scrive Mediobanca ma si legge Generali. La nuova puntata del risiko bancario, andata in scena venerdì scorso con l’offerta pubblica di scambio lanciata da Mps su Piazzetta Cuccia, somiglia in apparenza ad una pagina del Calvino più sperimentale, quello del Castello dei destini incrociati, tourbillion di storie che si incrociano, si sovrappongono, disorientano il lettore. Anche questa è una storia di incroci; non di tarocchi però, come nella finzione romanzesca, bensì di partecipazioni azionarie. Sempre di carte si tratta, direbbe un fatalista, visto che i valori di borsa possono risultare talvolta più evanescenti dei voli della fantasia. Ma sotto le azioni ci sono i soldi, tanti, ed a Piazza Affari i sogni non hanno corso legale. Altra differenza: la trama. Nel romanzo di Calvino è un ordito talmente sottile che lo si sente sfuggire da ogni parte, la catena dei significati essendo avvolta in una fitta rete di simboli. Nel grande gioco dei signori della finanza la trama invece c’è, e si vede. Parlare di Chigi Bank, come ha fatto qualche giornale, probabilmente è eccessivo, ma di certo il governo svolge un ruolo di primo piano. L’esecutivo ha dovuto incassare uno smacco con la mossa di Unicredit su Banco Bpm, che ha scompaginato il disegno originario di terzo polo tessuto dal Mef, che vedeva schierati il gruppo di Piazza Meda, Anima, campione del risparmio gestito, e Mps, sempre lei. Andrea Orcel ha fatto saltare il banco, mettendo sotto scacco proprio Banco Bpm, passata da predatore a preda, tra i bruciori di stomaco della maggioranza, Lega in primis. Un altro potenziale smacco si è profilato all’orizzonte con l’operazione varata da Generali insieme alla francese Natixis, società d’investimento controllata da Bpce, gruppo che raccoglie le banche popolari d’Oltralpe. In breve: una joint venture alla pari, 50% al Leone e 50% ai transalpini, con l’obiettivo di dar vita al leader europeo dell’asset management. Il problema è che Generali dovrebbe portare in dote 650 miliardi di patrimoni gestiti. Risparmi italiani che, secondo i critici, andrebbero ad ingrassare i conti del partner francese, senza alcuna reale garanzia che alla fine, in un modo o nell’altro, non sia quest’ultimo a prendere il timone. Troppo per un governo che della sovranità ha fatto il suo brand e che non può permettersi scorrerie bleu nel recinto della finanza tricolore. Troppo anche per i due grandi scontenti dell’azionariato di Generali, il gruppo Caltagirone e Delfin, cassaforte della famiglia Delvecchio, da anni sul piede di guerra perché fuori dalla stanza dei bottoni e fin dal primo momento schierati contro il disegno concepito tra Trieste, gran cerimoniere l’ad Philip Donnet (sì, francese), e Parigi. L’allineamento di questi tre pianeti, benché dovuto a circostanze contingenti, ha prodotto un’offensiva che potrebbe ridisegnare la galassia del potere finanziario (e non solo) italiano. Caltagirone e Delvecchio detengono rispettivamente il 7% e il 9,9% di Generali, ma sono anche soci di Mediobanca (7,7% e 19,8%), azionista di punta del Leone. Con l’Ops lanciata da Mps, nel cui capitale sono rappresentati con il 5% e il 9,7%, possono stringere la preda in una manovra a tenaglia e ribaltare, sfruttando l’effetto sorpresa e la sponda del governo, che attraverso il Tesoro è ancora primo azionista (11,7%) di Rocca Salimbeni, l’esito di una guerra che fin qui li ha visti sconfitti in tutte le battaglie, respinti ai margini del “salotto buono” - di quel che ne resta - del capitalismo italiano. Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, ha fatto già rullare i tamburi di guerra contro l’offerta “ostile”. E oggi ha riunito il Cda per coordinare le difese. Come nelle attese, l’offerta è stata respinta perché “non concordata” e giudicata “fortemente distruttiva di valore”. Inoltre secondo il Cda di “la presenza degli stessi azionisti in Mps, Mediobanca e Generali nell’ambito di un’offerta esclusivamente in azioni configura una potenziale disomogeneità negli interessi rispetto al resto della compagine azionaria”. La partita si gioca anche sui giornali. Caltagirone ha schierato subito Il Messaggero, ammiraglia della sua flotta editoriale, preannunciando di fatto l’apertura delle ostilità. La risposta non si è fatta attendere: lunedì sulle prime pagine degli altri big, storicamente non indifferenti alle sirene della grande finanza acquartierata tra Milano e Trieste, è partito un fuoco di fila di editoriali contro l’operazione “sovranista”. L’impressione, insomma, è che i protagonisti stiano schierando gli eserciti sul terreno. Del resto la posta in gioco è altissima. Lo sa anche il sindacato. Siamo di fronte ad “un potenziale ridisegno storico degli assetti della finanza italiana. La strategia è chiara ed innovativa, almeno per il nostro Paese. L’operazione, infatti, è fondata sull’alta complementarietà dei business e sulle sinergie da ricavi - ha commentato a caldo il segretario generale di First Cisl Riccardo Colombani. La combinazione dei business dichiarata dall’ad di Mps Lovaglio è la naturale conseguenza della volontà di proteggere e valorizzare i due marchi storici della finanza italiana. Senza questi presupposti, le lavoratrici ed i lavoratori potrebbero perdere fiducia nel progetto industriale che potrà realizzarsi solo con l’investimento qualitativo e quantitativo sull’occupazione”.
Carlo D'Onofrio