Sabato 27 luglio 2024, ore 1:52

Filosofia

Schopenhauer: l’età del disincanto

di STEFANO CAZZATO

Perché Arthur Schopenhauer definì Hegel “ciarla tano, impostore, sofista e fariseo”? Un giudizio aspro, impietoso, e per di più contro il più grande filosofo dell’Otto cento, ma che dice molto. Dice in particolare che l’esistenza non si può spiegare in base a un disegno superiore e provvidenziale, e che se anche questo disegno esistesse - non sarebbe conoscibile dall’uomo il quale vive solo di apparenze. È questa, in estrema sintesi, la tesi de “Il mondo come volontà e rappresentazione”.

Ma “Il mondo” è solo l’opera più sistematica del filosofo di Danzica che affidò a scritti più divulgativi il compito di esprimere con un linguaggio figurato, poco filosofico, talvolta aforistico, l’idea, già espressa da Kant, del non oltrepassabile limite fenomenico: “noi non conosciamo il sole e la terra in sé ma l’occhio che vede il sole, l’occhio che vede la terra”; “quando le nubi viaggiano, non si curano delle figure che formano; la loro essenza è di seguire l’urto del vento, le figure esistono solo per l’osservatore”; “un torrente che precipita in basso sulle pietre nulla sa dei vortici, delle onde e dello spumeggiare che fa vedere: la sua natura sta nel seguire la gravità, quelle forme ci sono solo per noi”; “il ghiaccio sul vetro della finestra si forma secondo le leggi della cristallizzazione, che sono la sua natura: gli alberi e i fiori che forma esistono solo per noi”; “il mondo è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia che il viaggiatore scambia da lontano per un miraggio, oppure a una corda buttata per terra che l’uomo prende per un serpente”.

Molte sono le affermazioni che alludono a questa condizione di sogno, a questa epistemologia dell’incertezza e della vaghezza, al disincanto della ragione dopo la stagione del suo trionfo. E’ come se la realtà fosse coperta da un velo, il velo di Maya, la dea indiana dell’illusione, appunto.

C’è però qualcosa che conosciamo in sé, oltre le illusioni. E non è certo l’hegeliana logica dello spirito, la rassicurante astuzia della ragione. Questa cosa è la forza (voluntas) che ci muove, che ci fa vivere, desiderare, volere. E si tratta di una forza irrazionale, di un cieco istinto di sopravvivenza, che agisce in modo inequivocabile in noi, negli altri e nel resto della natura come una pulsione cosmica che dirige tutti gli esseri.

Compito della filosofia, diversamente dalla scienza che osserva il mondo esterno, e lo riduce a leggi ferree e costanti, è quello di farci prendere coscienza del mondo interno attraverso l’introspe zione socratica del conosci te stesso. In che modo, quindi, agisce la voluntas? L’uomo vive di bisogni.

Se non li appaga prova dolore, frustrazione, disagio, se li appaga, dopo un breve momento di felicità, prova assuefazione, noia e poi ancora nuovi bisogni, nuovi desideri. In sostanza: “la vita è come un pendolo, un continuo alternarsi di dolore e noia”. “Dei sette giorni della settimana i primi sei sono di dolore e fatica, il settimo di noia”. “Nella vita, quando vogliamo possedere una cosa, dobbiamo lasciare, a destra e a sinistra, e rinunciare a molteplici altre. E se a ciò non sappiamo risolverci, e cerchiamo di afferrare invece, come bambini alla fiera, tutto quanto nel passare ci attrae, allora corriamo a zig zag, vagando qua e là e non approdiamo a nulla”. “Le cose giungono troppo tardi per l’uomo o è lui che giunge troppo tardi per le cose. “La vita, vista dal suo punto di partenza, sembra senza fine, mentre vista dal termine del suo percorso sembra assai breve.” “Vivere felici può significare solo vivere il meno infelici possibile”.

C’è però una via d’uscita dal dolore in cui versa la condizione umana, di cui tutti soffrono indipendentemente dalle circostanze esterne, dalla ricchezza e dalla posizione sociale? E per sottrarsi a quella lotta di tutti contro tutti che la dinamica dei bisogni, come aveva già mostrato Hobbes, inevitabilmente comporta? Esiste, come dice un altro libretto di Schopenhauer, “l’arte di essere felici”?

Intanto, bisogna prendere coscienza della sofferenza, cosa che solo il saggio, libero dai bisogni della volontà e dalle illusioni, sa fare. Egli non vive il desengano, la disillusione; non va “a caccia di una selvaggina inesistente; “pre dilige la moderazione, si tutela dallo squallore di una casa fatiscente come dall’invidiabile fasto di un palazzo perché il gigantesco pino è scosso con più furia dai venti, le alti torri crollano più pesantemente, i fulmini colpiscono le vette dei monti”; il saggio capisce che “la vita è come un cerchio di carboni ardenti con singoli spazi freddi su cui deve correre senza sosta, e non potrà consolarlo il fatto che proprio adesso si trova in uno spazio freddo, visto che l’intero cerchio è il luogo della sua corsa incessante – costui ne uscirà fuori: mentre lo stolto vi resta dentro, appunto perché sta in uno spazio freddo” .

Ma la vera via d’uscita dalla legge cieca e irrazionale della volontà è la noluntas (la negazione della volontà). Se la radice del male sta nel volere, la soluzione è nel non volere, nel professare un’etica della rinuncia, come sostengono l’ascetismo cristiano, lo stoicismo greco e il buddismo (Schopenhauer conosceva e amava la sapienza orientale e indiana da cui prese molti concetti tra cui il velo di Maya).

Lo stoico, l’asceta, il sapiente si ritirano dal mondo e dalla lotta continua e inutile che comporta.

Schopenhauer, per realizzare la noluntas, esclude il suicidio, che nasce non dalla negazione della vita ma dal desiderio di avere una vita migliore, e individua nelle cosiddette strategie della redenzione le vie grazie alle quali l’uomo si può liberare dalla voluntas pur restando in vita.

Queste vie sono essenzialmente due: l’arte che consente agli uomini attraverso il piacere della contemplazione estetica di dimenticarsi, momentaneamente, di sé stessi, del proprio dolore, e di essere trasportati in un mondo ideale, di quiete e di purezza, che è l’opposto della vita attiva. Questa funzione sarebbe svolta essenzialmente dalle arti figurative e dalla musica. La seconda forma è l’ascesi che consiste nel separarsi dal mondo

attraverso tre momenti: la giustizia (gli altri sono come me, soffrono come me; al di là dell’individuazione, della propria condizione momentanea che può anche essere felice, siamo tutti espressione del giogo della volontà cieca); la compassione (se tutti soffrono, posso capire il dolore degli altri come gli altri possono capire e confortare il mio; l’apatia (l’indifferenza ai piaceri, ai bisogni, alle tentazioni della vita comoda che, se non appagate, generano sofferenza). Attraverso questi tre gradi l’uomo può raggiungere quello che gli indiani chiamano il “nirvana” e che Schopenhauer chiama “la calma del mare”.

Ha ragione quindi lo scrittore francese Michel Houellebech quando dice che “nella filosofia cupa e lucida di Schopenhauer non c’è posto per la candida allegria. Tuttavia gli capita di constatare l’esi stenza di certi piccoli momenti di imprevista felicità, di certi piccoli miracoli”. Tanto più straordinari quanto più l’uomo, da animale metafisico per eccellenza, quindi più in alto nella scala gerarchica degli esseri intelligenti, si pone quelle domande senza risposta che lo getterebbero nella disperazione.

 

( 20 febbraio 2024 )

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