Lunedì 6 maggio 2024, ore 13:35

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Via Po Cultura

I sistemi attuali di intelligenza artificiale stanno diventando competitivi con gli esseri umani in compiti generali, e dobbiamo chiederci: dovremmo forse lasciare che le macchine inondino i nostri canali di informazione con propaganda e falsità? Dovremmo automatizzare tutti i lavori, compresi quelli appaganti? Dovremmo sviluppare menti non umane che alla fine potrebbero superarci in numero, in astuzia, rendendoci obsoleti e sostituirci? Dovremmo rischiare di perdere il controllo della nostra civiltà?» È lo stralcio allarmante di una petizione resa pubblica nel marzo del 2023 dal Future of Life Institute, organismo non profit formato da scienziati, studiosi e politici. A firmarla, migliaia di figure leader nel campo della ricerca e della tecnologia, tra cui Elon Musk e Steve Wozniak. Lo riporta Nello Cristianini in “Machina sapiens”, un saggio snello ed esaustivo sui temi, le implicazioni e i timori collettivi suscitati dal meme ormai sempre più ricorrente dell’intelligenza artificiale. Ma a quel punto del volumetto, l’autore, che insegna proprio tale materia all’Università di Bath, ha già sgombrato il campo dai troppi fraintendimenti che si accompagnano a una svolta decisiva dell’evoluzione umana. Scrive infatti nelle pagine precedenti: «Un agente intelligente ha bisogno di un modello dell’ambiente in cui opera, ovvero di una rappresentazione interna delle caratteristiche salienti per la sua missione. Per esempio, se vogliamo un agente che blocchi le email indesiderate, questo avrà bisogno di un modello di spam con cui predire se un nuovo messaggio sarà di interesse per l’utente». Il problema posto dall’intero libro è che i modelli di provenienza sono compositi, ma in larga parte umani. Oggi, a XXI secolo ormai inoltrato, si sa che «quali comportamenti si insegnano alle macchine nella fase finale dipende dal produttore». Pertanto Cristianini impiega tutti i capitoli a illustrare le fasi attraverso le quali sono passate finora le diverse articolazioni dell’intelligenza artificiale. Il suo non è tanto l’ottimismo di chi crede, anche per deontologia professionale, nelle magnifiche sorti e progressive, quanto la frequentazione diretta del “machine learning”, l’apprendimento della macchina, che si costruisce o si ricostruisce all’interno dei propri circuiti la visione del mondo esterno, con cui dovrà interagire, non sovrapporsi. Viene di gran lunga sfatato l’incubo di HAL 9000, il supercomputer dell’astronave Discovery in “2001 Odissea nello spazio”. L’intelligenza artificiale non può prendere il controllo della missione e sterminare gli astronauti semplicemente perché un simile “comportamento” non rientrerebbe nel “modello” acquisito. Qualcosa di simile alle tre leggi della robotica ideate da Isaac Asimov per scongiurare il pericolo di creature automatiche capaci di sopraffare gli esseri umani. Vale la pena, allora, di tornare su circostanze e vicende storiche a monte della machina sapiens.Il sistema Libratus fu sviluppato dai ricercatori della Carnegie Mellon University, la prestigiosa istituzione accademica privata di Pittsburgh, in Pennsylvania. Lì si tenne anni fa il torneo “The Brains vs. Artificial Intelligence”, consistente in una serie di partite fra il software e un gruppo dei maggiori professionisti del mondo: Dong Kim, Daniel McCauley, Jimmy Chou e Jason Les. Vinse la macchina, rastrellando un bottino in fiches di un milione e settecentomila dollari. «Non ero affatto certo che saremmo riusciti a battere quattro giocatori del genere» dichiarò al “Guardian” il professor Thomas Sandholm, del dipartimento di Computer Science della Carnegie Mellon. Il risultato confermò le intuizioni di Cameron Schuler dell’AMII, l’Alberta Machine Intelligence Institute, dove nel 2015 si realizzò il primo esemplare di pokerista informatico, Claudico. «Il poker è importante» affermò il ricercatore «perché quando si gioca a scacchi o a Go, quel che sta pensando l’avversario non è rilevante, è rilevante quello che c’è sulla scacchiera. La scacchiera contiene già tutte le possibili varianti del gioco. Con il poker le informazioni sul tavolo sono molto meno e il comportamento dei giocatori è una delle variabili fondamentali difficili da prevedere. Non a caso la nostra intelligenza artificiale pesa ventisei terabits.» Schuler e i suoi collaboratori “insegnarono” il poker a Claudico con una console vintage, l’Atari 2600: «Perché si sta sperimentando così tanto con i giochi? Perché anche noi umani sperimentiamo la realtà attraverso di loro, imparando a prendere decisioni e a fare scelte in un ambiente dove si rischia la propria vita». Furono gli esiti di un processo che riportava indietro nel tempo all’origine dell’intelligenza artificiale. Nel 1936 usciva l’articolo “Sui numeri computabili”, di Alan M. Turing, destinato a scomparire prematuramente appena trentottenne per un suicidio istigato dal bigottismo britannico. In quella esposizione, lui ventilava la possibilità di una Macchina Universale: «Ogni volta che si pone a una di queste macchine l’opportuna domanda problematica ed essa ci fornisce una risposta univoca, sappiamo, con un certo senso di superiorità, che questa risposta dev’essere sbagliata». Vi si postulava la nascita dell’intelligenza artificiale, caratterizzata, rispetto a quella umana, dalla mancanza di flessibilità, dalla tendenza ad eseguire, sia pure con rapidità incredibile, solo e soltanto le funzioni previste dai programmi. Gli albori dell’informatica ebbero applicazioni militari. Turing fu chiamato a Bletchey Park, dove i servizi segreti inglesi decrittavano i messaggi dei tedeschi inviati con la macchina detta Enigma. Solo con l’utilizzo di dispositivi computerizzati in grado di smistare il traffico di cifre e lettere, gli alleati riuscirono a interpretare anticipatamente gli ordini di Berlino alle truppe naziste di terra, di cielo e di mare. Questo fu determinante per vincere la guerra. Costantini non può esimersi dal citare Turing nelle pagine iniziali di “Machina sapiens”, dove parte naturalmente dal “gioco dell’imitazione” del matematico inglese, che aveva già compreso di doversi confrontare con quella che lui definiva “machine intelligence”, dimostrando un’intuizione profetica. La macchina poteva pensare? Inoltre, come non riconoscere un tributo a tre precursori? Il primo è Blaise Pascal, costruttore della “Pascaline”, una calcolatrice meccanica. Il secondo è Joseph-Marie Jacquard, che inventò le schede perforate e ne ricavò una mirabolante tessitrice automatica. Il terzo Charles Babbage, che nell’Inghilterra vittoriana propose la costruzione della Macchina Analitica, la madre di tutti i computer. Peccato fosse troppo ingombrante e che il suo prototipo iniziale non desse risultati convincenti, perciò gli furono tolti i fondi. Ciò che oggi non manca invece alle migliaia di aziende che basano i loro profitti sul mercato informatico. Fu il genio ungherese John von Neumann a concepire la configurazione avanzata del computer. Peraltro, la storia e la cronaca registrano un perdurante contrasto tra lui e Mauchly, che insieme a Eckert rivendicava la primogenitura dell’idea. La macchina di von Neumann si componeva di una centrale aritmetica cui spettavano i calcoli elementari, un’unità di controllo centrale che stabiliva la sequenza delle operazioni, una memoria per registravi i programmi e una duplice categoria di canali: quelli di input, che ricevevano i dati dall’esterno, quelli di output, che li restituivano elaborati. Altra conquista che si accompagnò all’epopea dell’intelligenza artificiale fu quella della rappresentazione binaria dei numeri. Fu un’esigenza nata anche questa dal risparmio di tempo. Se le macchine dovevano computare più in fretta degli esseri umani, bisognava dotarle del linguaggio più adatto. Più i risultati delle operazioni erano elevati, più cresceva il numero di cifre che i circuiti macinavano, con susseguente emissione di calore, a danno delle valvole. Konrad Zuse, neolaureato in ingegneria civile alla Technische Hochschule di Berlino, nel 1938 escogitò un codice di simboli basato su due sole cifre, lo 0 e l’1. Come ora si sa, le unità binarie dànno ai computer la possibilità di correre sul filo dei secondi per riempire i circuiti di numeri incredibilmente elevati. È un repertorio senza il quale non ci si troverebbe all’odierno stato dell’arte . Conclude Cristianini: «L’istinto degli scienziati è da sempre quello di esplorare e di conoscere, e adesso si trovano davanti a una delle domande più fondamentali: che cosa vuole dire essere intelligenti?»

Enzo Verrengia

( 26 aprile 2024 )

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