Sabato 27 luglio 2024, ore 2:55

Scenari

Come preservare la democrazia mentre posti di lavoro vengono delocalizzati

I cittadini “conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune”. L’Europa deve cambiare: servono debito, politica fiscale e difesa comuni. E chi l’avrebbe detto che il nostro rigoroso ex premier nonché ex governatore della Bce un giorno avrebbe proferito queste parole? Sì, lo avevamo sentito parlare anche di debito buono, ma il camaleontico Mario Draghi riserva sempre sorprese. E così intervenendo a Washington alla quarantesima Nabe Economic Policy Conference, ha ammesso che nel recente passato sono stati commessi molti errori, prima su tutte una globalizzazione senza controllo, che “ha indebolito i valori liberali e ha cambiato i paradigmi della politica economica e monetaria”. In verità sono decenni che alcuni studiosi mettono in guardia da questi rischi, ma sono stati solo denigrati da chi predicava il rigore e dimenticava che un tempo l’Europa sociale (ebbene sì, era tra gli obiettivi dell’Unione) richiedesse ben altre misure. Anche nel richiamo a debito e fisco europei, Draghi sembra in ritardo. Oggi la sua visione è realistica e lucida. Ma le malelingue dicono e scrivono che sia solo strategia per guadagnarsi la poltrona di presidente del Consiglio europeo, la cui corsa per trovare un candidato si accende in anticipo, dopo le dimissioni annunciate da Charles Michel. Anche per evitare che Orbàn ne occupi la poltrona. La notizia è stata lanciata dal Financial Times oltre un mese fa, ma se ne parla poco. Macron è tra i fan di Mario Draghi al Consiglio europeo. Piace a molti, in teoria anche a Meloni, ma i socialisti rivendicano quella poltrona. Draghi a Bruxelles ha un nome con un peso proprio, tanto che la Commissione europea gli ha affidato la stesura di un rapporto sulla competitività industriale che sarà presentato dopo le elezioni europee. Un indubbio peso specifico. Ma Draghi, rispetto ad altri concorrenti, non fa parte di nessuno dei grandi partiti politici europei e questo è un fattore non trascurabile nella sua possibile nomina. Eppure già anni fa Soros gli aveva scritto una lettera indicandolo come “leader europeo ’in grado di far avanzare’ le posizioni europee, e che ha “l’iniziativa, l’immaginazione, l’alta reputazione” necessarie per il braccio di ferro con Mosca e per per far avanzare un progetto federalista in Europa”. Oggi Draghi negli Usa sostiene che “dobbiamo fare attenzione e preservare la democrazia”. Ma preservarla da chi? L’ex premier non poteva semplicemente ammettere che le politiche neoliberali hanno portato il mondo sull’orlo di un baratro. Troppo evidente, ormai. Nel suo discorso, ha detto che “contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti”. Ma non è stata una percezione. Sono fatti. “La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione. (...) Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti lasciati indietro dalla globalizzazione”. Peccato che però l’ex premier - anche all’Ecofin - batta sempre il tasto delle bisogni delle transizioni verde e digitale, stimati in almeno 500 miliardi di euro l’anno, a cui vanno aggiunti la Difesa e gli investimenti produttivi, che non sempre si traducono in attenzione ai bisogni sociali. Guerre e pandemie,inoltre, non hanno aiutato in passato e non aiuteranno in futuro. E se la direzione è quella, se la loro inevitabilità viene data per assunta da leader politici e tecnici, ancora non ci siamo. Bisogna prevenirli, i disastri. Non solo limitarsi a cercare farraginose soluzioni quando i buoi sono scappati dalla stalla. Ora Draghi dice che “i governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito” e che “la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria”. Ma è questo il ruolo dei politici. Forse ad un tecnico era sfuggito in anni precedenti. Staremo a vedere. Draghi propone “un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati”. E poi torna su un vecchio cavallo di battaglia mai cavalcato: l’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti, che “amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali”. Le banche centrali,tuttavia, dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano “le aspettative di inflazione”. L’Europa dei suoi fondatori, quella di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, nel Manifesto di Ventotene, indicarono le “condizioni” di edificazione dell’Europa post bellica: un continente in cui “le forze economiche non debbono dominare gli uomini ma essere da loro sottomesse, guidate, controllate affinché le grandi masse non ne siano vittime (...) verso gli obiettivi di maggior vantaggio per tutta la collettività”. Per il manifesto di Ventotene la collettivizzazione socialista però non basta. Serve un’Europa in cui “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. Un’Europa socialista che l’euro e la moneta incentrata sul libero mercato hanno però molto allontanato dai nobili propositi dei suoi fondatori. Fa una certa impressione ascoltare Draghi promuovere politiche sociali. Forse l’Unione europea dovrebbe riscoprire la famosa Pesc di tempi addietro, la Politica estera e di sicurezza comune. Non limitarsi dunque ad una difesa autonoma ma dotarsi anche di una propria politica estera, ma ciò sarà possibile (come afferma anche Lucio Caracciolo) quando Germania e Italia daranno vita a nuovi accordi che modifichino quelli siglati nel secondo dopoguerra nell’ambito degli aiuti del Piano Marshall, che ci imponevano di assecondare gli Usa in politica estera. Draghi rispolvera i suoi studi giovanili con il professore Federico Caffè. Ma come conciliare questa posizione con la distruzione creativa espressa in più documenti che portano la sua firma? “La percezione di un gioco truccato - continua Draghi - in cui posti di lavoro vengono delocalizzati mentre governi e aziende rimangono indifferenti, ha alimentato la richiesta di una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione”. L’analisi doveva forse essere preventiva, avrebbe dovuto frenare la deflazione salariale: perché non è stato fatto prima di precipitare in questo pantano di conflitti e pandemie?
Raffaella Vitulano

( 27 febbraio 2024 )

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