Qualsiasi analisi dedicata alla storia del sindacalismo di matrice cristiana in Italia deve necessariamente fare i conti con la personalità di Giulio Pastore. Ciò è, palese, ovviamente, per la storia dell’Italia repubblicana ma la sua biografia aiuta a comprendere le evoluzioni del cosiddetto “sindacalismo bianco” anche negli anni precedenti, a partire dal periodo immediatamente successivo la I guerra mondiale. L’incontro con la figura di Achille Grandi fu, in questa direzione, decisivo e permise ad un giovanissimo Pastore di iniziare a svolgere attività dirigenziale nella CIL sin dal 1921. Da qui l’esperienza nella sinistra del Partito popolare – straordinaria novità nel panorama nazionale, in quanto prima espressione di un partito di ispirazione cattolica. Le tormentate vicende del partito fondato da Luigi Sturzo, segnate dal difficile e complesso rapporto con le gerarchie ecclesiastiche e dalla progressiva affermazione del regime fascista, hanno certamente contribuito a forgiare la personalità politica e sociale di Pastore. La controversa partecipazione del PPI al I governo Mussolini, la delegittimazione vaticana della leadership di Sturzo – che lo portò ad un lungo esilio – sino allo scioglimento del 1926, hanno consentito al giovane Pastore di fare esperienza in un tornante decisivo e drammatico della vita nazionale. Ciò ebbe un impatto notevole e ne caratterizzò inevitabilmente le evoluzioni successive. Essendo nato nel 1902, Pastore apparteneva ad una generazione mediana tra gli adulti dell’Italia liberale – da Sturzo (1871) a De Gasperi (1881), da Meda (1869) a Grandi (1883) – ed i giovani cresciuti sotto il fascismo – da Dossetti (1913) a Moro (1916), da Taviani (1912) ad Andreotti (1919). Per quanto il dato generazionale sia un dato “grezzo” e non sempre rappresentativo della posizioni maturate, è indubbio che l’orizzonte esclusivo del totalitarismo fascista abbia costituito uno spartiacque fondamentale nella formazione delle classi dirigenti. Un già maturo Pastore si trovò, dunque, a partecipare alla rifondazione clandestina di un partito di ispirazione cattolica, durante gli anni della II guerra mondiale. Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 nasceva infatti la DC, partito composito che riprendeva in parte il discorso interrotto del popolarismo ma che rappresentava al contempo un’esperienza nuova, plurale, inedita per contenuti e forme. Condizionata dall’imporsi del principio di unità dei cattolici – affermazione legata alle peculiari dinamiche del dopoguerra, caratterizzate dalla forte presenza dei partiti marxisti e dall’incipiente Guerra fredda – la DC presentava al suo interno varie anime, con sensibilità differenti e visioni della società e dello Stato che, pur avendo un perimetro comune, venivano declinate in modo significativamente diverso. In questo quadro pluralistico, Pastore avrebbe presto assunto la leadership di un gruppo coeso, espressione di un cattolicesimo sociale sindacalizzato, attento alle esigenze delle classi lavoratrici. Divenuto uno dei massimi dirigenti della CGIL unitaria, in rappresentanza della corrente cristiana, la sua peculiare visione sindacale trovò una precisa incarnazione in due direttive fondamentali. Da una parte, la formazione cristiana dei lavoratori che si realizzava soprattutto attraverso le attività delle Acli, chiaramente legate all’autorità ecclesiastica. Dall’altra, la concezione del “sindacato nuovo” che maturava progressivamente e che ebbe, com’è noto, un momento di svolta con la rottura dell’esperienza unitaria e la formazione prima della libera Cgil e poi della Cisl. La visione di un sindacato pensato sul modello americano – pur naturalmente calato in una realtà peculiare come quella italiana della Guerra fredda –, la ricerca di un’autonomia (tutt’altro che semplice) tanto dall’appartenenza confessionale quanto da quella partitica hanno caratterizzato la cultura politica e sindacale di Pastore, segnandone anche l’azione. In questa direzione non è certo un caso che dentro la DC il gruppo sindacalista (cislino ed aclista) si posizionava in modo originale, sull’ala sinistra del partito ma in autonomia tanto dal gruppo gronchiano quanto da quello dossettiano. Se in particolare con quest’ultimo vi era una comune sensibilità politico-sociale, non mancavano le differenze soprattutto in tema di politica estera. Il convinto sostegno alla politica atlantista di De Gasperi si legava, infatti, anche alla citata adesione ad un certo modello cultural-sindacale. Una visione pragmatista che ha caratterizzato pure l’azione di governo – tutt’altro che episodica, visto che si è sviluppata nell’arco di dieci anni (dal 1958 al 1968) e con una continuità istituzionale (piuttosto rara) sul versante del Mezzogiorno e delle aree depresse del centro-nord. La morte avvenuta nell’autunno del 1969, proprio quando si andavano acutizzando le lotte operaie e si aprivano nuovi scenari sindacali, ha un valore simbolico davvero straordinario.
Paolo Acanfora