Il prossimo Papa sarà progressista o conservatore? Verrà dalla gerarchia o dalle periferie? Queste alcune domande – legittime, ma non quelle essenziali – che accompagneranno mercoledì 7 maggio l’ingresso dei 133 Cardinali nella Cappella Sistina per scegliere il 267mo Successore di Pietro. La guida di 1 miliardo e 400 milioni di cattolici sulla Terra. Il punto di riferimento delle aspirazioni e delle le speranze del mosaico delle oltre 2900 Diocesi sparse in tutto il mondo. Colui che sarà chiamato a traghettare la Chiesa nei prossimi anni, prendendo in mano l’eredità di Francesco in un mondo teatro della “Terza guerra mondiale a pezzi”.
L’eredità di Francesco, appunto. Un tema da maneggiare con cura. Per rispetto del Papa “venuto dalla fine del mondo”; e per rispetto di chi sarà eletto tra pochi giorni.
La Chiesa “non è un Parlamento, né un raduno politico, ma una convocazione nello Spirito”: con queste parole, in occasione del Sinodo dell’ottobre 2023, Papa Francesco ha per l'ennesima volta chiesto di rifuggire dalla tentazione di ragionare secondo schemi politici.
E allora siamo sulla strada sbagliata se pensiamo determinante il fatto che dei 133 Cardinali che eleggeranno il nuovo Papa 108 sono quelli creati da Bergoglio. Nessuno, in realtà, può dire che si tratti di un gruppo omogeneo, tanto meno monolitico dal punto di vista della visione sulle questioni che riguardano la vita e il governo della Chiesa. Quello che certamente ha realizzato Papa Francesco, con il complesso delle sue nomine cardinalizie, sono una Chiesa e un Sacro Collegio sempre meno eurocentrici, sempre meno a trazione italiana e occidentale, con uno sguardo attento e puntiglioso alle periferie e alle Chiese di frontiera in tutto il pianeta. Guardando ancora al Conclave, 59 saranno i cardinali provenienti dall’Europa (19 dall’Italia), 37 dalle Americhe (16 dall’America del Nord, quattro da quella centrale, 17 dall’America del Sud), 20 i cardinali dall’Asia, 16 dall’Africa, tre dall’Oceania.
Periferie geografiche che Papa Francesco ha posto sullo stesso piano delle periferie esistenziali.
Abbiamo imparato a conoscere in questi 12 anni questo lessico bergogliano, lessico comunque familiare nella Chiesa, almeno a partire dal Concilio Vaticano II. “Tutti sono responsabili di tutti”, scriveva ad esempio San Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis.
Certo, ogni Papa è diverso dall’altro, come stile, carattere e storia personale. E per fortuna: la diversità è una ricchezza, anche nella Chiesa. E ogni Papa ha fatto qualcosa “per la prima volta”, infrangendo regole del passato. E dunque è utile capire quali saranno le “prime volte” del prossimo Pontefice, senza misurarle pedissequamente su quelle del precedente.
La sostanza è che Papa Francesco ha lanciato sassi dove vedeva nella Chiesa acque stagnanti, con la dichiarata e ripetuta volontà di avviare processi senza necessariamente approdare ad esiti finali.
Su questo - cioè sugli ulteriori passaggi delle riforme e delle questioni ecclesiali e sociali aperte - potremo verificare la continuità o meno del Magistero. Continuità che, al di la di tante valutazioni, c’è sempre stata almeno negli ultimi due secoli così densi di “rerum novarum”; e c’è stata anche negli ultimi 12 anni.
E sempre per rispetto di Francesco e per il suo Successore, sarebbe ingiusto definire subito la cifra del nuovo Pontificato da alcuni elementi che probabilmente entreranno nei primi titoli di giornali e telegiornali e nei commenti dell’opinione pubblica. Se ad esempio il prossimo Papa dovesse lasciare Casa Santa Marta per tornare nell’Appartamento Pontificio; oppure indossasse scarpe di colore rosso invece che nero: davvero queste eventuali scelte fotograferebbero l’immagine di un Papa fuori fuoco e fuori sincrono?
La sostanza è altro. Sarebbe ancora una volta fare torto a Papa Francesco ridurre ad una presa di distanza dal Vaticano la volontà di essere sepolto nella Basilica di Santa Maria Maggiore: luogo dove Sant’Ignazio celebrò la sua prima Messa e dove Bergoglio andava di ritorno da ogni viaggio e da ogni ricovero per pregare davanti alla più importante icona mariana, la Salus Populi Romani. Così come sarebbe fargli torto attribuirgli la volontà di una sorta di doppio funerale: quello “obbligato” in Piazza San Pietro, alla presenza del Potere istituzionale, politico ed ecclesiale; e quello “autentico” appunto a Santa Maria Maggiore, con la partecipazione del Popolo anche lungo le strade di Roma.
Certo, la sostanza è anche forma. E se ne sono certamente accorti i Capi di Stato presenti al funerali di Papa Francesco. Ha scritto Antonio Polito sul Corriere della Sera: “Francesco è stato ciò che è stato perché era il capo di Santa Romana Chiesa. L’incontro straordinario tra Trump e Zelenski in San Pietro sotto il Battesimo di Cristo è una dimostrazione del Patrimonio di autorità morale di cui dispongono ancora il Papa e la Chiesa” .
Autorità incentrata sull’annuncio della Salvezza che riguarda tutta l’umanità. Annuncio che si traduce anche nella difesa della vita delle persone, in ogni momento e in ogni condizione. Dai nascituri agli anziani, dai poveri agli immigrati, dai soli ai malati: nessuno è uno scarto, nessuno deve essere lasciato indietro.
Tutto questo è dettato nel cuore dei 133 Cardinali che stanno per entrare in Conclave. Un luogo chiuso a chiave, in realtà spalancato sul mondo intero.
Giampiero Guadagni